All'inizio del 1945 il Fronte Orientale era stato relativamente stabile fin dall'agosto 1944, dopo l'esito dell'Operazione Bagration. I tedeschi avevano perso Budapest e gran parte dell'Ungheria. Romania e Bulgaria vennero costrette alla resa ed, entrate nella sfera di influenza sovietica in cui sarebbero restate per cinquant'anni, e dovettero dichiarare guerra alla Germania, loro precedente alleata. La pianura polacca si apriva di fronte all'Armata Rossa sovietica.
I comandanti sovietici, dopo la loro mancanza di azione durante la rivolta di Varsavia, presero la capitale polacca nel gennaio 1945. Nell'arco di tre giorni, su un ampio fronte che incorporava quattro armate, l'Armata Rossa cominciò un'offensiva attraverso il fiume Narew e da Varsavia. Dopo quattro giorni l'Armata Rossa ruppe il fronte e iniziò a muoversi alla velocità di 30/40 km al giorno, prendendo gli stati baltici, Danzica, la Prussia Orientale, Poznan, e schierandosi su una linea posta sessanta chilometri ad est di Berlino, lungo il fiume Oder.
Un contrattacco dell'appena creato Gruppo d'armate Vistola, sotto il comando di Heinrich Himmler, fallì il 24 febbraio, e i russi entrarono in Pomerania e ripulirono la riva destra dell'Oder. A sud, tre tentativi tedeschi di liberare l'accerchiata Budapest fallirono e la città cadde in mano ai sovietici il 13 febbraio. Ancora una volta i tedeschi contrattaccarono: Hitler insisteva infatti sull'impresa impossibile di riconquistare il Danubio. Per il 16 marzo l'attacco era fallito e l'Armata Rossa contrattaccò il giorno stesso. Il 30 marzo entrò in Austria e catturò Vienna il 13 aprile.
Solo un dodicesimo (o anche meno) del carburante necessario alla Wehrmacht era disponibile. La produzione di aerei da caccia e di carri armati era in discesa, e la qualità era molto inferiore a quella del 1944. Era chiaro a tutti che la sconfitta tedesca era solo questione di poche settimane, ma i combattimenti sarebbero stati feroci come nel resto della guerra; l'orgoglio nazionale, l'insistenza degli Alleati per una resa incondizionata e il desiderio di guadagnare tempo per permettere ai rifugiati di arrivare ad ovest prima dell'arrivo dell'Armata Rossa portarono le unità tedesche a combattere fino all'ultimo. Adolf Hitler decise di rimanere nella sua capitale. Tanto Hitler quanto buona parte della sua corte rimasero preda di sogni ed illusioni fino all'ultimo, in particolar modo Hitler, che meditava sovente su Federico II di Prussia "il Grande", che era riuscito a salvarsi dalla completa sconfitta nella Guerra dei Sette Anni perché i suoi nemici (ed in particolare la Russia) avevano iniziato ad ostacolarsi a vicenda ed erano usciti dall'alleanza. Le idee che circolavano nel bunker sotterraneo della cancelleria, tra i più alti gradi del III Reich, rimanevano però improntate a un totale scollegamento dalla realtà: la guerra era persa da mesi se non da anni, ma ci si ostinava da un lato a credere ad una vittoria impossibile, dall'altro a pensare che il Reich dovesse finire in una sorta di autodistruttivo crepuscolo degli dei; erano completamente incuranti delle perdite civili e militari. Inoltre si era completamente dimentichi delle tristi condizioni dell'esercito tedesco, in cui divisioni formate da bambini di 13-14 anni ed anziani di 60-70, pesantemente sotto organico (3-4.000 uomini contro i quasi 12.000 teorici), armati con un coacervo di armi modernissime e antiquate (fucili d'assalto accanto a moschetti Carcano 91/28), avrebbero dovuto resistere indefinitamente, mentre altre formazioni analoghe avrebbero dovuto garantire una immensa quanto assurda controffensiva da Sud.
Gli Alleati occidentali avevano dei piani abbozzati per il lancio di truppe paracadutate che prendessero la città, ma decisero di non farne nulla. Dwight Eisenhower non vedeva il bisogno di soffrire delle perdite per prendere una città che sarebbe ricaduta nella sfera d'influenza sovietica alla fine della guerra. Inoltre il piano era irrealistico in termini di numero di soldati e di quantità di rifornimenti necessari per l'operazione.
L'offensiva sovietica in quella che sarebbe diventata la Germania Est (RDT) aveva due obiettivi. A causa dei sospetti di Stalin circa la reale intenzione degli Alleati occidentali di cedere i territori da loro occupati al dominio sovietico del dopoguerra, l'offensiva doveva essere portata su un fronte ampio e muoversi il più rapidamente e il più in profondità possibile verso ovest. Ma l'obiettivo prioritario era la cattura di Berlino. Le due cose erano complementari, perché il possesso dell'area non poteva essere ottenuto rapidamente se non veniva presa prima Berlino. Un'altra considerazione era che Berlino stessa aveva dei "beni" utili dal punto di vista strategico per il dopoguerra, compresi Adolf Hitler e il programma atomico tedesco.
Il 9 aprile 1945 Königsberg, Capitale della Prussia Orientale, capitolò davanti all'Armata Rossa. Questo evento lasciò libero il II Fronte Bielorusso (2FB) del Generale Rokossovsky di spostarsi ad ovest, sulla sponda orientale del fiume Oder. Durante le prime due settimane di aprile i russi eseguirono il loro più rapido ridispiegamento della guerra. Il generale Georgy Zhukov concentrò il suo I Fronte Bielorusso (1FB), che era stato dispiegato lungo l'Oder, da Francoforte fino al Mar Baltico, nell'area di fronte alle Alture Seelow. Il 2FB si spostò nelle posizioni lasciate libere dal 1FB a nord delle Alture Seelow. Mentre questo ridispiegamento era in atto si aprirono dei varchi nelle linee e i resti della II Armata Tedesca, che erano rimasti intrappolati in una sacca nei pressi di Danzica, trovarono la via di fuga attraversando l'Oder. A sud il generale Konev spostò il peso principale del I Fronte Ucraino (1FU) al di fuori dell'Alta Slesia, a nord-ovest del fiume Neisse. I tre fronti sovietici contavano complessivamente 2,5 milioni di uomini (compresi 78.556 soldati della I Armata Polacca), 6.250 carri armati, 7.500 aerei, 41.600 pezzi di artiglieria e mortai, 3.255 lanciarazzi multipli Katyusha montati su camion (soprannominati "Organi di Stalin") e 95.383 veicoli a motore, molti dei quali di fabbricazione statunitense.
Il generale Gotthard Heinrici prese il posto di Himmler come comandante del Gruppo d'armate Vistola il 20 marzo. Egli era uno dei migliori tattici difensivi dell'esercito tedesco ed iniziò immediatamente a stendere dei piani difensivi. Heinrici (correttamente) stimò che la principale spinta sovietica sarebbe avvenuta attraverso l'Oder e lungo la principale autostrada in direzione est-ovest. Egli decise di cercare di difendere le sponde dell'Oder con nulla più che una cortina di leggere schermaglie. Invece fece sì che i suoi genieri fortificassero le Alture Seelow, che sovrastavano l'Oder nel punto in cui l'autostrada lo attraversava. Heinrici iniziò ad assottigliare le linee in altre aree per aumentare il numero di uomini disponibili per difendere le alture. I genieri dell'esercito tedesco trasformarono in una palude la piana alluvionale dell'Oder, già saturata dalle piogge primaverili, liberando l'acqua di una riserva a monte. Dietro a questa palude costruirono tre cinture difensive che arrivavano fino ai sobborghi di Berlino. Queste linee consistevano di buche anti-carro, postazioni per cannoni anti-carro ed un'estesa rete di trincee e bunker.
Poco prima lo spuntare dell'alba del 16 aprile l'offensiva ebbe inizio con un massiccio bombardamento da parte di migliaia di pezzi di artiglieria e di razzi Katyusha;il fuoco di sbarramento sovietico fu impressionante eseguito da quasi 7.000 cannoni e le munizioni ammassate ai cannoni erano quasi 9 milioni. Cessato il rombo delle cannonate, fu la volta degli Sturmovik: circa duemilacinquecento bombardieri sovietici effettuarono la più massiccia incursione sulla città condotta dall'inizio della guerra. Verso le 4,30 finalmente l'Armata Rossa si mise in moto: il 1FB attaccò dalla testa di ponte di Küstrin attraverso l'Oder, sotto una pioggia battente, mentre il l 1FU attaccò a sud attraverso la Neisse. Il 1FB era più forte ma ebbe un compito più arduo in quanto dovette fronteggiare il grosso delle formazioni tedesche.
L'attacco iniziale del 1FB fu un disastro. Heinrici anticipò l'attacco sovietico e ritirò i suoi difensori dalla prima linea di trincee prima che l'artiglieria sovietica le eliminasse, prendendo così i russi in contropiede. La luce di 143 riflettori antiaerei, che nei piani doveva accecare i difensori, venne diffusa nella foschia del primo mattino, rivelando utili profili delle formazioni sovietiche attaccanti. Il terreno paludoso si rivelò un grosso ostacolo e sotto il fuoco di contro-sbarramento tedesco le perdite sovietiche furono enormi. L'opposizione incontrata sulle alture di Seelow per giunta fu talmente fanatica che, al calar della sera, l'avanzata russa si limitava in certi tratti a soli tre chilometri, mentre le puntate massime non superavano gli otto.
Frustrato dalla lenta avanzata, Zhukov lanciò in campo le sue riserve, che nei piani originari dovevano essere risparmiate per sfruttare l'atteso sfondamento. A sud, l'attacco del 1FU si atteneva ai piani. Zhukov venne costretto a riportare a Stalin che la Battaglia delle Alture Seelow non stava andando come previsto. Stalin per spronare Zhukov gli disse che avrebbe dato a Konev il permesso di guidare le sue armate di carri verso Berlino, facendo leva sulla rivalità esistente fra i due marescialli.
Il secondo giorno il personale del 1FB si ridusse a setacciare le retrovie alla ricerca di qualsiasi truppa che potesse essere mandata in battaglia. La tattica sovietica di usare attacchi in massa si stava rivelando più costosa del solito. La notte del 17 aprile il fronte tedesco davanti a Zhukov rimaneva intatto, ma nulla di più. A sud l'Heeresgruppe Mitte al comando del Generale Ferdinand Schorner non si stava rivelando un ostacolo insormontabile. La IV Armata Panzer sul fianco destro del suo schieramento, stava arretrando sotto il peso dell'attacco del 1FU. Schorner tenne le sue due divisioni panzer di riserva a sud, a copertura del centro, invece di usarle per sostenere la IV Armata corazzata. Questo fu il punto di svolta della battaglia, perché entro la notte le posizioni meridionali del Gruppo di Armate della Vistola e i settori settentrionali del Gruppo d'Armate Centro erano diventati indifendibili. A meno che non si fossero rimessi in linea con la IV Armata Panzer, la IX Armata di Busse avrebbe affrontato l'accerchiamento. In effetti i riusciti attacchi di Konev sulle povere difese di Schorner, a sud della battaglia delle Alture Seelow, stavano mettendo in difficoltà la brillante difesa di Heinrici.
Il 18 aprile entrambi i Fronti sovietici fecero solidi progressi, ma le perdite furono ancora sostanziali. Al calar della notte il 1FB aveva raggiunto la terza e ultima delle linee di difesa tedesche e il 1FU, avendo catturato Forst, si preparava ad irrompere negli spazi aperti. Il 19 aprile, quarto giorno di battaglia, il 1FB irruppe attraverso l'ultima linea delle Alture Seelow e nient'altro che formazioni tedesche in rotta si frapponevano tra questo e Berlino. I reggimenti sbandati della IX Armata, che avevano tenuto le alture, e i resti del fianco nord della IV Armata Panzer, erano in pericolo di venire accerchiati da elementi del 1FU: la III Armata Guardie e la III e IV Armata Corazzata Guardie che, essendo passate attraverso le linee della IV Armata Panzer, puntavano in direzione nord, verso Berlino e il 1FB.
Consapevole del rischio di rimanere intrappolato in una gigantesca tenaglia, il 20 aprile (cinquantaseiesimo compleanno di Hitler) Heinrici annunciò che la IX armata cominciava a cedere sotto la pressione russa e chiese pertanto il permesso di farla ripiegare prima che fosse troppo tardi: «Se la IX armata non ripiega immediatamente, essa sarà completamente travolta». Ma la sua richiesta cadde nel vuoto: il Führer, gli dissero, al momento era occupato a presenziare un ricevimento in suo onore. Quando l'autorizzazione a ritirarsi gli fu finalmente concessa, alle 14:50, la IX armata era ormai completamente accerchiata.
Per la fine dei 19 aprile il fronte tedesco orientale aveva in pratica cessato di esistere e tutto ciò che ne restava erano sacche di resistenza. Il prezzo per le forze sovietiche fu molto alto, tra il 1º e il 19 aprile avevano perso oltre 2.807 carri armati, soprattutto ad opera delle armi anticarro tedesche (PaK 40 e Panzerfaust). Durante lo stesso periodo gli Alleati ad ovest ne avevano persi 1.079, affrontando, d'altra parte, forze tedesche meno consistenti.
Il 20 aprile l'artiglieria russa del 1FB iniziò il bombardamento della città, che sarebbe terminato solo con la resa della sua guarnigione, il 2 maggio. Alla fine della guerra i russi sottolinearono che il quantitativo di esplosivo impiegato dalla loro artiglieria era maggiore del tonnellaggio sganciato dai bombardieri anglo-americani nel corso della guerra aerea su Berlino.
Il 21 aprile - sesto giorno della battaglia - la II Armata Guardie avanzò di quasi 50 km a nord di Berlino e quindi attaccò a sud-ovest di Werneuchen. Altre unità sovietiche raggiunsero l'anello di difesa più esterno. Il piano sovietico era di accerchiare prima Berlino e poi la IX Armata.
Il 1FU si era intanto spinto attraverso le ultime formazioni del Gruppo d'armate Centro ed era passato a nord di Juterbog, ben oltre la metà strada dalle linee del fronte statunitensi sul fiume Elba, a Magdeburgo. A nord, tra Stettino e Schwedt il 2FB attaccò il fianco nord del Gruppo d'armate Vistola, tenuto dalla III Armata Panzer.
Il comando della IV Armata Panzer, intrappolato con quello della IX Armata a nord di Forst, passò a quest'ultima. I tedeschi stavano ancora tenendo Cottbus. Quando il fianco sud della IV Armata Panzer ottenne qualche successo locale, contrattaccando verso nord, contro il 1FU, Hitler diede alcuni ordini che mostravano come la sua presa sulla realtà militare fosse svanita. Egli ordinò alla IX Armata di tenere Cottbus e di creare un fronte orientato verso ovest dal quale avrebbero dovuto attaccare le colonne sovietiche che avanzavano verso nord. Questo avrebbe loro permesso di formare il braccio settentrionale della morsa che si sarebbe congiunta alla IV Armata Panzer proveniente da sud, ed accerchiare il 1FU prima di distruggerlo. Essi dovevano anticipare un attacco a sud da parte della 3. Panzerarmee ed essere pronti a formare il braccio meridionale di un attacco a tenaglia che avrebbe circondato il 1FB che sarebbe stato distrutto dal III. SS-Panzerkorps del tenente-generale Felix Steiner, che avanzava da nord di Berlino. Più tardi in quel giorno, Steiner rese chiaro che non disponeva delle divisioni per una simile azione. Heinrici a sua volta disse chiaramente allo staff di Hitler che se la IX Armata non si fosse ritirata immediatamente, sarebbe stata accerchiata dai sovietici. Sottolineò inoltre che era già troppo tardi per farla muovere a nord-ovest verso Berlino, e che avrebbe dovuto ritirarsi verso ovest. Heinrici continuò dicendo che se Hitler non gli avesse permesso di spostarsi verso ovest, avrebbe chiesto di venire rilevato dal comando.
Il 22 aprile, durante la sua riunione pomeridiana sulla situazione, Hitler si abbandonò ad una rabbia colma di lacrime quando realizzò che i suoi piani del giorno precedente non si sarebbero realizzati. Egli dichiarò che la guerra era persa, ne diede la colpa ai generali ed annunciò che sarebbe rimasto a Berlino fino alla fine per poi suicidarsi. In un tentativo di far uscire Hitler dalla sua rabbia, il generale Alfred Jodl speculò sulla possibilità che la XII Armata, che stava affrontando gli statunitensi, potesse essere spostata a Berlino, poiché gli americani, già arrivati sull'Elba, difficilmente si sarebbero spinti più a est. Hitler afferrò immediatamente l'idea e nel giro di poche ore il generale Walther Wenck ricevette l'ordine di sottrarsi al combattimento con gli statunitensi e spostare la XII Armata verso nord-est per soccorrere Berlino. Si realizzò quindi che se la IX Armata si fosse mossa verso ovest poteva unirsi alla XII. In serata Heinrici ottenne il permesso di eseguire questa manovra. Lontano dalla sala delle mappe del Führerbunker di Berlino, con i suoi attacchi immaginari di divisioni fantasma, i sovietici procedevano verso la vittoria nella guerra. Il 2FB aveva stabilito una testa di ponte sulla sponda orientale dell'Oder, profonda più di 15 km, ed era pesantemente impegnato con la 3. Panzerarmee. La IX Armata aveva perso Cottbus ed era pressata da est. Una punta avanzata di carri sovietici era sul fiume Havel, ad est di Berlino, e un'altra aveva ad un certo punto penetrato l'anello difensivo più interno di Berlino. Quella sera stessa Konev poté comunicare a Stalin di aver messo piede per primo nei sobborghi della capitale.
Il 23 aprile il 1FB e il 1FU sovietici continuarono a stringere l'accerchiamento assicurandosi tra l'altro il controllo dell'ultimo collegamento che la IX Armata Tedesca aveva con la città. Elementi del 1FU continuarono a spostarsi verso ovest e iniziarono ad impegnare la XII Armata Tedesca che si stava spostando verso Berlino. Hitler nominò il Generale Helmuth Weidling comandante della difesa di Berlino. Per il 24 aprile elementi del 1FB e del 1FU avevano completato l'accerchiamento della città, mentre Konev, assediata Postdam, spingeva le sue avanguardie oltre la Nuthe, fiumiciattolo che delimita due rioni di Berlino, Steglitz e Zehlendorf.
In città intanto la situazione dei civili si andava aggravando di ora in ora. Non c'erano più elettricità, gas e luce; le macchine esplodevano sotto il tiro delle artiglierie e le condutture di acqua potabile erano saltate per via dei bombardamenti. Mentre venivano distribuite le razioni di emergenza, le SS gironzolavano per le case alla ricerca di ragazzini sui 12-13 anni da mandare a combattere in prima linea. L'anagrafe aveva cessato di funzionare così come pure tutti i servizi igienico-sanitari della città.
Il giorno seguente il 2FB spezzò le linee della III Armata Panzer attorno alla testa di ponte a sud di Stettino ed attraversarono la palude Rando. Era ora libero di avanzare verso ovest in direzione del XXI Corpo d'armata Britannico e in direzione nord verso il porto baltico di Stralsund. La LVIII Divisione Guardie della V Armata Guardie prese contatto con la 69ª Divisione di fanteria della I Armata USA nei pressi di Torgau, sull'Elba. La Germania si trovava ora tagliata in due.
Subito dopo essere stato nominato da Hitler generale della Wehrmacht con il doppio compito onorifico di stroncare qualsiasi moto di cedimento e di difendere Berlino, il Reichsminister (nonché Gauleiter della città sin dal 1926) Joseph Goebbels ordinò l'immediata mobilitazione di ogni divisione dell'esercito e delle SS che si trovasse nei dintorni della piazzaforte. Alla vigilia del 21 aprile (data d'inizio dell'assedio), dentro la cerchia di Berlino che Hitler aveva da poco fatto ribattezzare Festung ("Fortezza"), affidandone il comando dapprima al generale Reymann e in seguito al generale Helmuth Weidling, c'erano 94.094 uomini in armi nelle seguenti unità, raggruppate nel 56º Panzerkorps passato al comando del generale Hans Mummert:
- Divisione corazzata Muncheberg: 3000 uomini più una ventina di carri; presente a Lichtenberg, Fredrichshain e Weissensee.
- 11. SS Freiwilligen Pz.Gren.Div. Nordland: 1500 uomini, 15 carri; dislocata nel quadrante Neukölln-Treptow.
- 20. Pz.Gren.Div. (3000 uomini e qualche carro armato): assegnata all'area di Steglitz-Zehlendorf.
- 9. Divisione Paracadutisti (4000 uomini circa): presente a Pankow assieme a due o tre battaglioni di territoriali.
- Formazioni della H.J. (effettivi: 2280). Sparse un po' dappertutto, a Zehlendorf (municipio), Tempelhof (aeroporto), Wedding, Pankow, Reinickendorf (postazioni di Flak), e come presidio sui ponti di Spandau, Charlottenburg e Pichelsdorf.
- 32. Div. granatieri SS 30 Ianuar, distaccata sull'Alexanderplatz.
- Gruppo Mohnke, comprendente il Battaglione della Guardia di Himmler e il Battaglione Guardie della Leibstandarte SS, schierate nel quartiere governativo e attorno al Reichstag.
- I resti della 33. Div. granatieri SS Charlemagne (320-330 uomini), aggregata ai resti delle divisioni SS Wiking e Nederland, oltre ai rimasugli di varie unità, tra cui la celebre "Legione San Giorgio", formata dai prigionieri di guerra inglesi cui erano state date le armi.
- Il gruppo SS Todte (3000 uomini) e 400 volontari provenienti da un battaglione lettone, questi ultimi dispiegati nella zona dell'aeroporto assieme a diverse unità della difesa antiaerea.
- 1668 poliziotti, distaccati principalmente nel settore Tempelhof-Shoneberg.
- 18. Pz.Gren.Div, tenuta in riserva nell'ellisse di Tiergarten.
Per dare supporto a queste unità raccogliticce, Goebbels, confidando ancora in una impossibile vittoria finale, chiamò a raccolta il Volkssturm, la milizia popolare, composta da uomini anziani, molti dei quali erano stati da giovani nell'esercito e di cui alcuni erano veterani della prima guerra mondiale, i riformati in età da portare le armi, ed anche i piccoli Kampfgruppe, come quello costituito dai 200 sopravvissuti belgi della divisione Wallonie. Inoltre ordinò ad ogni civile tedesco di difendere la città fino all'ultimo anelito di forze. Döenitz dal canto suo fornì l'appoggio di circa 2000 marinai, che furono immediatamente rispiegati attorno al Reichstag e al Ministero degli Interni. Per il resto, si trattava di un'accozzaglia di gruppi da combattimento improvvisati, a volte privi persino del fucile, formati da vigili del fuoco, appartenenti alle forze dell'ordine, piloti della Luftwaffe, truppe della riserva generale, guardie di confine e donne della difesa contraerea.
Ricapitolando, dunque, poco più di 94.000 uomini appartenenti a tutte e tre le armi - esercito, aviazione e marina -, equipaggiate con poche decine di mezzi corazzati (50-60 carri armati e cannoni d'assalto), dovevano resistere all'urto di sette armate sovietiche (3ª e 5ª Armata d'urto, 8ª Armata della Guardia, 47ª Armata, 1ª, 2ª e 3ª Armata corazzata della Guardia) costituite da 464.000 soldati con 1.500 carri armati e 12.700 cannoni.
Delle trentasette divisioni tedesche incaricate di "tenere a tutti i costi" il fronte dell'Oder (il cosiddetto "Gruppo Armate della Vistola") non rimanevano che poche sacche di sbandati, poiché le formazioni migliori, come la IV Panzer, o erano state spazzate via nelle prime ore dell'attacco o erano rimaste tagliate fuori.
Il destino di Berlino era comunque segnato ma la resistenza continuò, in maniera spesso fanatica.
La battaglia vera e propria iniziò il 25 aprile, quando il 1FB varcò il canale Hohenzollern all'altezza di Plötzensee e iniziò ad avanzare nei settori orientale e nord-orientale della città, scontrandosi però ben presto con l'eroica resistenza opposta da elementi della IX divisione Paracadutisti del Reich nell'area industriale a cavallo fra l'Invalidenstrasse e la stazione Stettiner. Contemporaneamente, nel settore meridionale della città, l'VIII Armata delle Guardie e la I Armata Guardie corazzate si impadronivano dell'aeroporto di Tempelhof, dopo aver messo in rotta le formazioni della Hitlerjugend che lo difendevano assieme a reparti della difesa contraerea e della Muncheberg. Quella notte stessa caddero i ponti di Spandau e Pickelsdorf, difesi da alcune unità della Gioventù hitleriana.
Caduti i sobborghi esterni, la battaglia di Berlino si restrinse ai rioni di Mitte, di Kreuzberg e di Prenzlauerberg, ovvero la linea di quartieri denominata "Cittadella". L'avanzata sovietica verso il centro della città si svolse lungo alcuni assi principali: da sud-est lungo la Frankfurter Allee (terminata ad Alexanderplatz); da sud lungo la Sonnenallee con termine a nord di Belle Alliance Platz, da sud con arrivo nei pressi di Potsdamer Platz e da nord per arrestarsi vicino al Reichstag. Il Reichstag con il ponte Moltke, Alexanderplatz e i ponti sullo Havel a Spandau furono i luoghi dove i combattimenti furono più pesanti, con scontri casa per casa e corpo a corpo. I contingenti stranieri delle SS combatterono con particolare vigore perché erano ideologicamente motivati e perché sapevano che in ogni caso non sarebbero sopravvissuti alla cattura.
Il 27 aprile cadde l'aeroporto di Gatow. Violentissimi combattimenti, con perdite enormi da entrambe le parti, infuriavano intanto alla stazione di Anhalt e sull'Alexanderplatz dove, tra le macerie dei capisaldi e le buche di granata, un pugno di SS agli ordini dello Standartenführer Hans Kempin resisteva ancora, appoggiato dagli ultimi carri del 29º reggimento Panzer.
Il 28 aprile Heinrici rifiutò l'ordine di Hitler di tenere Berlino a qualsiasi costo, e venne quindi sollevato dall'incarico e sostituito dal Generale Kurt Student il giorno seguente.
Il 29 Hitler riunì per l'ultima volta i suoi collaboratori, espose loro la situazione generale e infine li congedò, dopo aver fatto giurare a ognuno di non lasciarsi prendere vivo. Intanto a Berlino si continuava a morire: a mezzogiorno le truppe di Cujckov si battevano già nella Vosstrasse, sulla quale si affacciavano la Cancelleria e il Ministero dell'Aeronautica (quest'ultimo difeso dal 15º Battaglione SS, formato da fucilieri lettoni). Ma si combatteva anche nel resto della città: per esempio a Tempelhof, dove 1200 ragazzi della H.J. tenevano ancora saldamente un tratto dell'aeroporto, e sulla Moritzplatz, difesa dai volontari spagnoli della SS Freiwilligen Kompanie 101 (detta anche Einsatzgruppe "Ezquerra", dal nome di Miguel Ezquerra, il suo comandante in capo).
Intanto nel bunker di Hitler ci si appigliava a ogni sottile speranza di salvezza e circolavano le idee più insensate. Persino il piano suicida del generale Weidling per una sortita fuori Berlino venne preso in seria considerazione: elementi della 18. Panzer e della 9. Divisione Aviotrasportata avrebbero dovuto forzare il blocco sovietico in direzione della Sprea, lungo la Heerstrasse, con le ultime munizioni rimaste e una manciata di blindati, per aprire un varco al Führer e al suo seguito verso il ponte di Spandau, in un settore ancora tenuto dalla Gioventù hitleriana. Una volta giunti là, l'ultimo quadrato di SS della divisione Nordland, affiancato dai resti di reparti scelti della Muncheberg e da un battaglione di polizia, avrebbe provveduto a scortare Hitler verso un luogo sicuro, oltre la sacca di Berlino.
Ma un attacco di assaggio, condotto dalla Hitlerjugend e da ottocento granatieri finì in un massacro spaventoso nei dintorni dello stadio di calcio e si dovette pertanto rinunciare all'impresa.
Il 30 aprile, mentre le forze sovietiche si aprivano a ventaglio combattendo di strada in strada verso il centro di Berlino, Adolf Hitler sposò Eva Braun e poco dopo si suicidò assumendo cianuro e sparandosi. Il suo corpo fu avvolto nelle coperte impregnate di benzina e carbonizzato assieme a quello di Eva Braun, che lo aveva voluto seguire anche nell'ora della morte. A questo punto i comandanti ancora in vita decisero che era venuto il momento di pensare a come uscire dalla sacca, tanto più che ormai i francesi della divisione Charlemagne si battevano, con le unghie e con i denti, a un centinaio di metri dal bunker. Entro mezzogiorno il battaglione del capitano Neustroev, appartenente alla 150. Divisione Fucilieri, aveva occupato la Königsplatz e si preparava a dare l'assalto finale al Reichstag dove, nelle grandi sale vuote, si erano barricate duemila SS agli ordini dell'Obersturmfuhrer Gerhard Babick. La lotta per impadronirsi di questo edificio simbolo sarebbe durata un intero pomeriggio.
Il 1º maggio (penultimo giorno di assedio), i miseri resti della Muncheberg (gen. Mummert) si radunarono nel Tiergarten, assieme a quelli della Nordland e della Charlemagne, comandati rispettivamente da Ziegler e da Krukenberg: in tutto poco più di 800 uomini malridotti, senza mortai né mitragliatrici, con appena cinque Panzer, di cui due erano vecchi cacciacarri Elefant e gli altri BA10 di preda bellica e Tiger II dell'11º reggimento Panzer (PanzerAbteilung) Hermann von Salza delle SS[17] Appoggiati da questi pochi mezzi e spinti dalla forza della disperazione, i tre comandanti decisero di tentare di uscire dalla sacca di Berlino alla testa dei loro uomini - gran parte dei quali aveva portato con sé la propria famiglia - sfondando in direzione di Pichelsdorf; per farlo, si divisero in due piccoli Kampfgruppe, il primo dei quali avrebbe lasciato il bunker alle nove. Al primo gruppo si unirono anche diversi volontari della XVIII Panzer, mentre al secondo si aggregarono alcuni membri dello stato maggiore del Führer, tra cui Bormann. Il Brigadeführer Mohnke (un nazista piuttosto fanatico, rimasto il più alto in grado) ordinò loro di riunire tutta la benzina e gli esplosivi rimasti, e di dare fuoco al bunker. Erano le nove di sera quando il primo gruppo lasciò il bunker diretto verso la stazione della metropolitana di Wilhelmplatz. Ne facevano parte Otto Günsche, colonnello e guardia del corpo di Hitler, l'ambasciatore Hewel, l'ammiraglio Voss, Heinz Linge, il cameriere di Hitler, le sue tre segretarie, e il suo pilota personale, Baur[18]. Non andarono lontano: scoperti dai russi durante la fuga, alcuni di loro si suicidarono, gli altri furono tutti presi prigionieri; tra questi ultimi, il Brigadeführer SS Mohnke e il colonnello Günsche.
Né miglior fortuna ebbe il secondo gruppo, allontanatosi dal bunker verso l'una e mezza di notte: nonostante l'appoggio di alcuni carri armati "Tigre", dovette fermarsi al ponte di Wiedendamm di fronte a un posto di blocco sovietico. Non si sa se Bormann sia rimasto ucciso nel breve scontro a fuoco che ne seguì o se sia riuscito a fuggire.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno cadde finalmente anche il secondo piano del Reichstag e due sergenti russi, Egorov e Kantarjia, poterono arrampicarsi sul tetto e issarvi la bandiera con la falce e il martello. L'impresa fu immortalata da una troupe di reporter e divenne in poco tempo una delle più celebri immagini dell'intero conflitto.
Per la divisione Charlemagne, ormai ridotta approssimativamente ad una trentina di uomini, la guerra poteva dirsi finita. Esaurite le munizioni, le SS francesi cercheranno, a piccoli gruppi, di attraversare le linee russe spingendosi quanto più possibile verso ovest per arrendersi agli inglesi o agli americani. E alcune di loro ci riusciranno, camminando per ore e ore nei condotti fognari e nelle gallerie della metropolitana, che sembra furono poi allagate determinando la morte anche di molti civili, al buio e senz'acqua. Altri, catturati dai russi, saranno invece fucilati sul posto.
Hitler era morto, ma la battaglia di Berlino continuava. La resistenza tedesca era discontinua: non essendoci più uno Stato maggiore a coordinare la difesa, ed essendo cessate praticamente tutte le trasmissioni, ciascun sottufficiale decise per conto suo se arrendersi ai russi o se tentare il tutto per tutto, aumentando in questo modo il caos tra reparto e reparto e peggiorando ancor più la già difficile situazione della popolazione civile. Furono momenti di panico indescrivibile, né mancarono fra l'altro gli attriti tra i singoli comandanti di battaglione: ad esempio nel settore di Spandau, quando alcuni parlamentari tedeschi si fecero incontro alle linee russe agitando una bandiera bianca, il Brigadefuhrer Krukenberg intimò loro l'alt puntandogli addosso la propria pistola...
Il Generale Weidling, comandante di fresca nomina, ordinò il "cessate il fuoco" il 2 maggio alle 07:00, mentre una fredda pioggerella cadeva sulla città. Per quell'ora anche la guarnigione di Spandau e quelle poste a difesa della torre antiaerea dello zoo si erano arrese ai russi. Ma nei pressi della Cancelleria i combattimenti proseguirono ancora fino alle 13:00, ad opera di alcuni reparti sbandati di SS del battaglione di Mohnke che, ignari di tutto, seguitavano a combattere.
A sud della città, durante la battaglia di Berlino e per alcuni giorni a seguire, la IX Armata Tedesca compì un'azione disperata per uscire dalla sacca in cui si trovava, in modo da riunirsi alla XII Armata e attraversare l'Elba per arrendersi agli statunitensi.
La battaglia finì dopo una settimana di pesanti combattimenti perché i tedeschi si trovarono a corto di uomini e mezzi. I magazzini di rifornimento tedeschi si trovavano fuori dalla linea di difesa più esterna e vennero presi dai sovietici all'inizio della battaglia. Nello scontro per prendere la città i sovietici persero circa 2.000 veicoli corazzati.
Nella sua desolante semplicità, la battaglia di Berlino fu, secondo le parole di un grande storico come Cornelius Ryan, "una tenaglia [...] che si aprì e si richiuse nel giro esatto di quindici giorni su una città difesa alla meno peggio." Il suo giudizio è stato peraltro condiviso dalla maggior parte degli storici contemporanei.
Dal 16 aprile al 2 maggio i sovietici ebbero 135.000 morti nelle operazioni nella Germania orientale e 50.000 morti dentro la città. Stalin affermò che i sovietici avevano avuto 70.000 morti, ma avevano ucciso oltre 170.000 soldati tedeschi, morti alla fine (secondo Stalin) in numero di 20.000 al giorno per l'ostinazione di Adolf Hitler. Oggi si parla di 80.000 morti sovietici e di 150.000 morti tedeschi. Alcuni invece parlano di 300.000 morti sovietici e di 325.000 morti tedeschi: 173.000 soldati e 152.000 civili (sempre dal 16 aprile al 2 maggio sul fronte berlinese).
Ecco la suddivisione dei morti sovietici e tedeschi nelle battaglie combattute tra il 16 aprile e il 2 maggio, esclusi i morti nella città, secondo le statistiche di 185.000 e 173.000 morti:
nella battaglia dell'Oder (16 - 19 aprile): sovietici: 35.000 (la maggior parte nel Seelow), tedeschi: 20.000.
la difesa di Berlino (ca. 20 - 25 aprile): sovietici: 50.000; tedeschi: 45.000 (25.000 uomini della Wehrmacht, 15.000 del Volkssturm e 5.000 delle Hitlerjugend) e 45.000 civili.
la battaglia vicino a Halbe (ca. 26 - 29 aprile): sovietici: 30.000; tedeschi: 60.000 (incl. 25.000 civili)
altre battaglie nell'attacco: sovietici: 20.000; tedeschi: 25.000 e 25.000 civili
Totale uccisi: Sovietici: 135.000; Tedeschi: 125.000 e 95.000 civili. 135.000 tedeschi si arresero durante la battaglia di Berlino, e molti di essi erano feriti.
Nel suo testamento politico, Hitler nominò l'Ammiraglio Karl Dönitz Reichspräsident e Joseph Goebbels Reichskanzler. Comunque, il suicidio di Goebbels, avvenuto il 1º maggio 1945, lasciò il nuovo capo di stato ad orchestrare da solo i negoziati per la resa della nazione. Tutte le forze armate tedesche si arresero incondizionatamente agli Alleati l'8 maggio 1945. La guerra in Europa era finita e così anche il Terzo Reich. Il "Reich Millenario" di Hitler era durato per dodici anni e costato 60 milioni di morti in tutta Europa. L'ultima grande battaglia fu l'Offensiva di Praga, dal 6 all'11 maggio 1945, quando l'esercito sovietico, con l'aiuto di truppe polacche, rumene e cecoslovacche, sconfisse le parti del Gruppo d'Armate Centro che continuavano a resistere in Cecoslovacchia. L'operazione coinvolse circa 3 milioni di uomini da ambo le parti. La guerra in Europa era finita.
lunedì 2 dicembre 2013
giovedì 13 giugno 2013
La morte di Mussolini e i fatti di Piazzale Loreto
FUGA E CATTURA DI MUSSOLINI
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandona il 18 aprile 1945 l'isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferisce a Milano, dove arriva in serata prendendo alloggio nella prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell'ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina.
Il 20 aprile concede nella prefettura di Milano, ove ormai è rinchiuso, un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale "Popolo di Alessandria", ed alla richiesta del giornalista di potergli rivolgere qualche domanda lo sorprende rispondendo: "intervista o testamento?". Fu l'ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile.
Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura pronuncia l'ultimo discorso ad un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, chiuso con l'affermazione che "se la Patria è perduta è inutile vivere". La sera si incontra con Carlo Silvestri e gli consegna una dichiarazione per il comitato esecutivo del PSIUP in cui chiede che la RSI finisca in mani repubblicane, non monarchiche, socialiste e non borghesi.
Il 23 aprile le truppe alleate entrano a Parma, e da Milano non sono più possibili le comunicazioni telefoniche con Cremona e Mantova, il giorno seguente Genova è liberata e il console tedesco Wolf si fa vivo per richiedere al ministro delle finanze Domenico Pellegrini il versamento anticipato di 10 milioni di lire, quota mensile per le spese di guerra del mese seguente. Il 25 aprile mattina gli operai iniziano ad occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano.
Nel pomeriggio del 25 aprile, con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, si svolge nell'arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, l'industriale Gian Riccardo Cella, il prefetto di Milano Mario Bassi, i ministri Zerbino e Graziani ed una delegazione del CLN composta dal generale Cadorna, dall'avvocato democratico-cristiano Marazza e dal rappresentante del partito d'azione Riccardo Lombardi. Sandro Pertini arriverà in ritardo a riunione conclusa. A Milano è in corso lo sciopero generale e l'ordine dell'insurrezione generale è imminente. Inoltre Mussolini apprende durante l'incontro che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN: l'unica proposta che riceve dai suoi interlocutori è quindi la "resa incondizionata". Un accordo al momento sembra possibile, dato che vengono date garanzie per i fascisti e per i loro familiari, ma i repubblichini, anche se senza vie d'uscita, non vogliono essere i primi a firmare la resa per essere poi tacciati di tradimento. Si riservano di dare una risposta entro un'ora lasciando l'arcivescovado e ritirandosi in prefettura, ma non ritorneranno più.
In serata, verso le ore 20, mentre i capi della resistenza, dopo aver atteso invano una risposta, danno l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini salutati gli ultimi fedeli, lascia Milano e parte in direzione di Como, assieme ai fascisti si trova il tenente Bizier con i suoi uomini, incaricato da Hitler di scortare Mussolini ovunque vada.
Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti riservatissimi e di particolare importanza politica e militare va in panne nei pressi di Garbagnate. L'equipaggio, tra cui Maria Righini cameriera personale di Mussolini, raggiunge Como con mezzi di fortuna. Vani risultano i tentativi di recupero effettuati nella notte. Il furgone sarà ritrovato la mattina seguente dai partigiani.
Alle 21:30 il capo del fascismo raggiunge la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano ed Anna Maria, ma Mussolini si rifiuta di incontrarli, limitandosi a scriver loro una lettera d'addio e a una telefonata con cui raccomanda alla moglie di portare i figli in Svizzera. Durante la notte insonne, febbrili incontri con le autorità locali demoliscono la possibilità di una sosta prolungata in città, considerata indifendibile. Rodolfo Graziani consiglia di ritornare a Milano, la maggior parte, in particolar modo Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, spingono per entrare in Svizzera, anche in maniera illegale. Su indicazione del federale di Como Paolo Porta, si sceglie di proseguire verso Menaggio.
Verso le quattro del mattino del 26 aprile cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandona precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi.
L'edizione del 26 aprile del Corriere della Sera, esce dedicando la sua prima pagina all'insurrezione di Milano contro i nazifascisti e riportando, sempre nella stessa pagina, la notizia dell'abbandono di Milano col titolo: "Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni".
A Menaggio proseguono le discussioni e le riunioni sul da farsi, mentre continuano ad arrivare nel centro lariano importanti personalità fasciste e la notizia presto si diffonde. Rodolfo Graziani spinge per tornare indietro, non ascoltato si congeda e fa ritorno verso Como. Anche Alessandro Pavolini ritorna sui suoi passi, per raccogliere e far convergere su Menaggio i militari arrivati a Como; nel viaggio sarà attaccato da una formazione partigiana rimanendo lievemente ferito. Molti vogliono sconfinare in Svizzera, prendendo la via di Porlezza e di là a Lugano. Si sceglie di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare. Alla partenza, improvvisa per cercare di liberarsi dell'oppressiva presenza della gendarmeria tedesca, il convoglio devia ad ovest in Val Menaggio, per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della 53ª compagnia della Milizia Confinaria con sede all'albergo Miravalle. A Cardano Mussolini è raggiunto dall'amante Clara Petacci accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l'ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Qui apprende che a Chiavenna un aereo da trasporto sarebbe pronto al decollo per portarlo in salvo in Baviera. A Grandola è raggiunto anche da Vezzalini, capo della provincia di Novara e dal maggiore Otto Kinsnatt della Waffen-SS, diretto superiore del tenente Fritz Birzer, proveniente dal lago di Garda. In serata arriva la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi, Angelo Tarchi e il vicecommissario della prefettura di Como, Domenico Saletta, che tentavano l'espatrio forzando la dogana, sono stati arrestati proprio a Porlezza dai partigiani. Nel frattempo la radio annuncia che anche Milano è stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale, trovati con le armi in mano saranno puniti con la pena di morte. Nell'impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l'indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si torna a Menaggio. Nella notte arriva Pavolini, senza i numerosi contingenti sperati, ma con soli sette o otto militi della GNR.
Nella notte, insieme a Pavolini, giunge a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del capitano Hans Fallmeyer diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decide di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro, alle cinque del mattino parte da Menaggio, ma alle sette, appena fuori dall'abitato di Musso, viene fermata ad un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottengono il permesso di poter proseguire a condizione che venga effettuata un'ispezione, e che siano consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il sottotenente Fritz Birzer, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finge ubriaco e sale sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano sarà concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.
Intanto, durante l'attesa in cui si svolgevano le trattative, Ruggero Romano con il figlio Costantino, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, Ernesto Daquanno, Goffredo Coppola e Mario Nudi si consegnano al parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, che li affiderà ai partigiani. Il sacerdote venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a "Pedro".
Como rappresentava per Mussolini una meta che offriva diverse possibilità:
Como e la sponda occidentale del suo lago rappresentava una zona marginale relativamente protetta e con una presenza partigiana limitata. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro ed appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio e quindi era possibile consegnarsi a loro con garanzie. Secondo la testimonianza del prefetto di Como Renato Celio, questa era l'obiettivo primario o punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il ridotto alpino repubblicano e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. L'idea però era osteggiata oltre che dai vertici militari tedeschi, anche dal generale Niccolò Nicchiarelli comandante della GNR e dal ministro Rodolfo Graziani, o alternativamente sembrava possibile costituire nella città lariana un estremo baluardo di difesa, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi “in extremis” con gli Alleati al loro arrivo. Infatti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti, condotte da Alessandro Pavolini. L'afflusso durò tutta notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti, mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di abbandonarli, sciogliendo dalla fedeltà al giuramento i suoi fedeli e partendo di nascosto con i ministri alle 3 del mattino.
Infine la vicinanza con la Svizzera poteva offrire una estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva sempre detto di rifiutare questa possibilità, consapevole che le autorità svizzere, fin dall'estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d'ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti ed ai loro familiari. In Svizzera era possibile poi concretizzare trattative con diplomatici americani, attraverso l'intermediazione del console spagnolo a Berna, oppure come meta momentanea per poi raggiungere la Spagna. Il Duce che giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera è stato arrestato è la prima immagine denigratoria che non sembra corrispondere alla verità. Le testimonianze degli accompagnatori italiani superstiti di quei giorni riferiscono concordemente del rifiuto di Mussolini ad espatriare.
Verso le ore 15 del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, viene però riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri e prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagna nella sede comunale, dove gli viene sequestrata la borsa di cui era in possesso.
Tutti gli altri componenti al seguito vengono arrestati: si tratta di più di cinquanta persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblicano, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegna spontaneamente, altri tentano di comprarsi una possibilità di fuga offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un'autoblindo cercano di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggono buttandosi nel lago ma vengono ripresi e Pavolini rimane ferito. Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, saranno sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra gli altri, che rimangono agli arresti a Dongo e saranno trasferiti a Como, un'ulteriore decina di essi, in due notti successive, viene prelevata ed uccisa..
Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il susseguente arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia “Pedro”. Il suo commissario politico era Michele Moretti “Pietro Gatti”, vice commissario politico Urbano Lazzaro “Bill” e il capo di stato maggiore Luigi Canali “Capitano Neri”. Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare, Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'Interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells. Tra i fermati c'è anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti.
Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo, vengono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo vengono anch'essi trasferiti a Germasino, i ministri rimangono rinchiusi nei locali del municipio e gli altri, autisti, impiegati, militari tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco, distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri ed in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, vengono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, esegue l'inventario di tutti gli ingenti valori ed i beni sequestrati.
Decisioni del CLNAI a Milano [modifica]
Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin "Carlo" era riuscito a comunicare su ordine di "Pedro", telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell'arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle 20.20, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza.
Già nella mattina del 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l'amministrazione della giustizia ove, all'art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum "Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato".
Con il diffondersi della notizia, giungeva al comando del CLNAI dal quartiere generale OSS di Siena un telegramma con la richiesta di affidamento al controllo delle forze delle Nazioni Unite di tutti i membri di governo della RSI, secondo la clausola numero 29 dell'armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, che prevedeva espressamente che: "Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite". All'aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore.
Tuttavia, non appena a conoscenza dell'arresto dell'ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Luigi Longo, riunitosi alle ore 23.00 del giorno 27, decide di agire senza indugio e di inviare una missione a Como per procedere all'esecuzione di Mussolini; questo per aggirare il comportamento equivoco del generale Cadorna, diviso tra i doveri di comandante del CLN e di lealtà verso gli Alleati.
Walter Audisio, “colonnello Valerio”, ufficiale addetto al comando generale del CVL e Aldo Lampredi "Guido" ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo vengono incaricati di eseguire la sentenza. Il generale Raffaele Cadorna, riluttante, per evitare che Mussolini cada nelle mani degli Alleati, rilascia il salvacondotto necessario; Audisio, inoltre, viene munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall'agente dell'OSS americano Emilio Daddario. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna rappresentante del CVL a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro.
Intanto alle 3 del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmette agli alleati un fonogramma a scopo depistaggio, nel quale si asserisce l'impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato "nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti". Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.
In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle 18.30 del 27 aprile, trasferisce l'ex duce, insieme a Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo "Pedro" riceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l'interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scopre che si tratta di Clara Petacci, che chiede di essere ricongiunta all'amante: il comandante acconsente.
Se al momento dell'arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore manifesta invece una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattiene con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza. Prima di coricarsi alle 23.30, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrive questa dichiarazione: La 52a Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerdì 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini. All'1.00 viene svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, per non essere riconosciuto, gli viene fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini è riunito alla Petacci, su richiesta di quest'ultima; poi, i due prigionieri sono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche Pedro, il Capitano Neri, Gatti, la staffetta Giuseppina Tuissi "Gianna" e i giovani partigiani Guglielmo Cantoni "Sandrino Menefrego" e Giuseppe Frangi "Lino" e condotti verso il basso lago.
La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene. Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. "Neri", d'accordo con "Pietro", è del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L'intenzione di "Pedro" è invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del CVL a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell'industriale Remo Cademartori a Blevio, sull'altra sponda del ramo comasco del Lario. Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rende conto che è troppo rischioso procedere oltre e non è possibile raggiungere la meta prefissata. "Pedro" riesce quindi a convincere il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non viene rinvenuta nessuna imbarcazione pronta ad accoglierli.. Intanto in lontananza, si odono echi di una nutrita sparatoria: si tratta di una prima avanguardia della 34a Divisione statunitense che sta entrando in città. Si decide quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustrano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini.
Intorno alle ore 3.00 di notte del 28 aprile, Mussolini e la Petacci sono quindi fatti scendere dalle vetture ed alloggiare a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del "capitano Neri" e di cui il capo partigiano si fida ciecamente. Il piantonamento notturno è effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi, "Pedro" con l'autista Dante Mastalli ritorna a Dongo, mentre "Neri", "Gianna" e "Pietro" con l'autista "Carletto Scassamacchine" si dirigono verso Como.
MORTE DI MUSSOLINI
LA VERSIONE STORICA:
Alle 7 del mattino del 28 aprile, Valerio e Guido partirono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani, agli ordini del comandante Alfredo Mordini "Riccardo", ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia "Aliotta", e di Orfeo Landini "Piero". Giunto a Como, Audisio esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli e al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano. Trattenuto a Como fino alle 12.15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta a Dongo, dove giungerà alle 14.10. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura e vanno a cercare aiuto nella sede comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca del P.C.I. lasciano Como verso le 10 ed arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giunsero da Como anche Oscar Sforni, segretario del CLN comasco e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di "Valerio", saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo ad operazione conclusa.
A Dongo "Valerio" trova un ambiente difficile ed ostile, infatti i partigiani lariani temevano un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Si incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle comunicandogli di aver avuto l'ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri. "Pedro" però non intende collaborare acriticamente, protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali, e ritenendole sufficienti, è costretto ad ubbidire ad un ufficiale di grado superiore.
Alle 15.15 Walter Audisio "Valerio" invia "Pedro" a Germasino a prendere i prigionieri e, a sua insaputa, parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l'ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci. Sono con lui Aldo Lampredi "Guido", Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri ed il luogo essendoci già stato la notte prima e l'autista Giovanni Battista Geninazza.
Moretti è armato di mitra francese MAS, calibro 7,65 lungo; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm. L'arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell'Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata.
Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell'evento. L'ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio, è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su "L'Unità" nel 1996.
Giulino di Mezzegra, il cancello di villa Belmonte, in via XXIV Maggio, sul muretto la croce indicante il luogo dove vennero uccisi Benito Mussolini e Clara Petacci.
Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da "Sandrino" e "Lino", sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l'abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l'esecuzione poco distante[56]: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere.
Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. "Valerio" sospinge Mussolini verso l'inferriata e pronuncia la sentenza: "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano" e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all'amante: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". Tenta di procedere nell'esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il "colonnello Valerio" scarica una raffica mortale di cinque colpi sull'ex capo del fascismo. La Petacci, postasi improvvisamente sulla traiettoria del mitra, è colpita ed uccisa per errore. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola. Sul luogo dell'esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro 7,65, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti. Sono le ore 16.10 del giorno 28 aprile 1945.
L'edizione locale dell'Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: "Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo"; mentre l'edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un'intervista col partigiano - di cui non viene fatto il nome - che "ha giustiziato il Duce", intitolata: "Da una distanza di 3 passi sparai 5 colpi a Mussolini".
L'IPOTESI INGLESE
Contatti segreti tra il duce ed emissari britannici erano avvenuti a Porto Ceresio (VA), presso il confine svizzero, il 21 settembre 1944 e il 21 gennaio 1945; inoltre, il testo delle intercettazioni telefoniche effettuate dai servizi segreti tedeschi a Salò, sulle conversazioni di Mussolini, suggeriscono l'esistenza di possibili accordi segreti e di uno scambio di lettere tra il dittatore italiano e il Primo ministro inglese Winston Churchill, anche se è ancora aleatorio definire il contenuto di tale carteggio. Il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, secondo le testimonianze di coloro che hanno dichiarato di averle ispezionate in quei giorni (partigiani, funzionari etc.) Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti contenente, tra l'altro, parte della sua corrispondenza con Churchill, ma di cui non è stata accertata la datazione. Nell'immediato dopoguerra, Churchill e i servizi segreti britannici, peraltro, si sarebbero mossi per recuperare tutte le copie di tale carteggio.
Alla scomparsa successiva all'arresto di Mussolini di tali documenti particolarmente segreti, divenuti noti come il "carteggio Churchill-Mussolini", si ricollegherebbe una versione sull'uccisione del capo del fascismo di cui al memoriale dell'ex comandante della divisione partigiana formata dalla 111ª, 112ª e 113ª Brigata Garibaldi, Bruno Giovanni Lonati “Giacomo”. In tale pubblicazione, uscita nell'autunno 1994 quasi cinquant'anni dopo i fatti, l'autore scrive di essere stato l'autore dell'uccisione di Mussolini, il 28 aprile 1945, poco dopo le ore 11, in una stradina laterale di fronte casa De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente inglese. Lo scopo della missione sarebbe stato quello di impedire la diffusione del contenuto del carteggio, recuperandolo e sopprimendo Mussolini e Claretta Petacci, essendo quest'ultima perfettamente informata sull'esistenza di tali rapporti.
In base a tale versione dei fatti, Lonati sarebbe stato contattato dal un agente inglese il giorno precedente a Milano alle ore 16 e, per lo svolgimento della missione, avrebbe costituito una squadra composta da altri tre partigiani. Il “commando” sarebbe stato messo a conoscenza del luogo esatto ove si trovavano i prigionieri, intorno alle ore otto del mattino del giorno 28, grazie a un altro agente, detto “l’alpino”, posizionato a Tremezzo. Dopo una sparatoria per superare un posto di blocco nei pressi di Argegno, ove uno dei tre partigiani del “commando” avrebbe perso la vita, la squadra sarebbe giunta a Bonzanigo e avrebbe avuto facilmente ragione dei guardiani della coppia. L'esecuzione sarebbe stata effettuata con mitra Sten. Il carteggio Churchill-Mussolini non poté essere recuperato, ma, dopo aver effettuato alcune foto ai cadaveri, l'agente inglese avrebbe concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo Lonati avrebbe scritto il suo memoriale solo nel 1994. Nel frattempo, nel 1982, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate a suo tempo dall'agente segreto “John” e avrebbe approvato il testo di una dichiarazione da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant'anni, a conferma di tale versione dei fatti.
Tale versione è stata accreditata da Peter Tompkins, scrittore ed ex agente segreto americano e dallo storico Luciano Garibaldi.
Questa ricostruzione è avvalorata dalle seguenti circostanze:
È documentato da registrazioni telefoniche e dalla corrispondenza intercorsa tra Mussolini e la Petacci, che quest'ultima era effettivamente al corrente dei contatti tra Churchill ed il capo del fascismo e del carteggio segreto.
È stata individuata la presenza in loco, ai primi di maggio del 1945, di un misterioso agente in uniforme da alpino, sicuramente in contatto con spie inglesi e probabilmente anche con la partigiana Giuseppina Tuissi “Gianna”, una delle poche persone a conoscenza della prigione di Mussolini e della Petacci, prima dell'esecuzione.
È stato effettivamente testimoniato il verificarsi di una sparatoria con morti tra un posto di blocco di partigiani e una macchina, ad Argegno, la mattina del 28 aprile.
L'orario antimeridiano dell'uccisione, secondo la versione Lonati, è coerente con la circostanza, rilevata in sede di autopsia, che lo stomaco di Mussolini fosse privo di resti di cibo.
La testimonianza di Dorina Mazzola, che ha dichiarato che Mussolini e la Petacci furono uccisi a Bonzanigo e non a Giulino di Mezzegra in orario antimeridiano del 28 aprile 1945 è abbastanza coerente, anche se non coincide perfettamente, con quanto affermato da Lonati. La Mazzola ricordava anche un uomo che aveva a tracolla “una lussuosa macchina fotografica”.
Luigi Longo, comandante in capo di tutte le brigate Garibaldi, secondo Tompkins, sarebbe giunto sul posto subito dopo la duplice uccisione, avrebbe architettato una “finta fucilazione” e la versione dell'uccisione “per errore” della Petacci, per poi legare al segreto per cinquant'anni tutti i partigiani presenti. A tal proposito non si può non tener conto della ricostruzione di Urbano Lazzaro, il partigiano “Bill”, vice commissario politico della colonna partigiana autrice della cattura, nella quale si dichiara che il personaggio presentatosi a Dongo il 28 aprile 1945, con il nome di battaglia di “Colonnello Valerio” fosse proprio Luigi Longo e non Walter Audisio, come comunemente si sostiene.
La versione di Bruno Lonati è tuttavia contraddetta, oltre che dalla versione ufficiale dei fatti, di cui è cenno in premessa:
Dall'autopsia effettuata a Milano il 30 aprile 1945, dal prof. Caio Mario Cattabeni, che ha rilevato almeno sette fori di entrata di proiettili sul corpo di Benito Mussolini, mentre Lonati ha affermato di aver sparato non più di quattro o cinque colpi.
Dagli ulteriori esami effettuati dal prof. Pierluigi Baima Bollone sulle fotografie dei cadaveri sospesi al traliccio di Piazzale Loreto, che attesterebbero non solo l'esistenza di una raffica di mitra sui due corpi, ma anche l'effettuazione del colpo di grazia a mezzo pistola.
Dal rilevamento di due proiettili da pistola, calibro 9 mm corto, nel corpo di Claretta Petacci, nel corso della riesumazione effettuata il 12 aprile 1947, incompatibile con i proiettili del mitra Sten calibro 9 mm lungo, che il Lonati asserisce fosse imbracciato dall'esecutore dell'omicidio.
Dalla circostanza che, in realtà, i partigiani incaricati a sorvegliare Mussolini e la Petacci, in casa De Maria furono soltanto due ("Lino" e "Sandrino), mentre invece Lonati racconta che il suo "commando" ne avrebbe immobilizzati tre, prima di effettuare la duplice uccisione;
Dal parere dell'anatomopatologo Luigi Baima Bollone che non ritiene decisiva la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini, in rapporto alla determinazione dell'orario dell'esecuzione.
Dal silenzio dell'ambasciata britannica più volte interessata dallo stesso Lonati per la conferma della sua versione, una volta scaduti i cinquant'anni dai fatti.
Dal rifiuto di rilasciare dichiarazioni a suo favore, da parte dell'unico partigiano del "commando", ancora vivente all'epoca della trasmissione trasmessa dal canale televisivo "Rai Tre" nel programma "Enigma", del 31 gennaio 2003.
Dal responso negativo della “macchina della verità”, cui si è sottoposto il Lonati stesso nel corso della trasmissione suddetta.
DIVERSE VERSIONI
Oltre alla versione storica e all'ipotesi inglese, sono sorte, negli anni, differenti versioni della duplice uccisione.
Il 22 ottobre 1945, ancor prima che si fosse formata la "versione storica" dei fatti, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", uno dei due militanti che il 28 aprile 1945 avevano piantonato Mussolini e la Petacci in casa De Maria, rilasciava un'intervista al Corriere d'Informazione. "Sandrino" dichiarava alla stampa di aver seguito a piedi la squadra degli esecutori e delle vittime della fucilazione, e di esser giunto nei pressi di Villa Belmonte in tempo per vedere “Valerio” sparare un paio di colpi di pistola contro l’ex duce, il quale era rimasto inaspettatamente in piedi; la raffica di mitra, che, secondo l’intervistato, avrebbe investito sia Mussolini che la Petacci, sarebbe stata inflitta da Michele Moretti, intervenuto subito per risolvere l’impasse. Successivamente lo stesso "Valerio" avrebbe sparato altri due colpi di pistola, sul corpo dell'uomo, che si muoveva ancora.
Altre versioni alternative sono frutto dell'attestazione del prof. Cattabeni, in sede di necroscopia del 30 aprile 1945, relativa all'assenza di residui di cibo nello stomaco di Mussolini; da ciò la deduzione che il duplice omicidio si sarebbe verificato in orario antimeridiano e l'ipotesi che poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile si sarebbe svolta una “finta fucilazione” di due cadaveri. Il primo studioso a delineare una simile tesi è stato Franco Bandini, nel 1978.
Nel 1993, lo storico Alessandro Zanella, sostenne che la duplice uccisione sia avvenuta intorno alle ore 5.30 del 28 aprile, all'interno o nei paraggi di casa De Maria, ad opera di Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Gatti" e Giuseppe Frangi "Lino". Quest'ultima versione si avvale di uno studio prodotto dal dr. Aldo Alessiani, medico giudiziario della magistratura di Roma, nel quale si attesta, in base all'esame delle foto scattate dalle ore 11.00 alle 14.00 circa del 29 aprile sui cadaveri appesi al traliccio di Piazzale Loreto, che Mussolini e la Petacci fossero morti da circa trentasei ore, e cioè ben prima delle ore 16.00 del 28 aprile 1945. Anche la cosiddetta “pista inglese” di cui è cenno nella precedente sezione, presuppone un'esecuzione in orario antimeridiano, anche se intorno alle 11.00.
Nel 1996 si è affiancata a quella del Bandini e di Zanella, un'altra ipotesi di uccisione antimeridiana, proposta dal giornalista ed ex senatore del MSI Giorgio Pisanò, a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Dorina Mazzola, vicina di casa dei De Maria, all'epoca dei fatti diciannovenne. Quest'ultima avrebbe testimoniato di aver assistito, sia pur da distanza di circa duecento metri, ad un diverbio con urla e spari verso le 9.00 del mattino del 28 aprile, provenienti dal cortile di casa De Maria, nel quale avrebbe notato una persona calva e in maglietta che camminava a fatica nel cortile; subito dopo la Mazzola avrebbe sentito una serie di colpi isolati e poi le urla della Lia De Maria e di un'altra donna. Inoltre, verso le ore 12.00, la Mazzola avrebbe assistito ad una scena analoga, ove, però, l'uomo calvo era trascinato a spalla da due persone, e, contemporaneamente si sarebbe udita prima una donna in lacrime, poi un'ultima raffica di mitra.
Nel 2005, Pierluigi Baima Bollone, ordinario di Medicina legale nell'Università di Torino, effettuò un riesame della necroscopia del 1945 sul cadavere dell'ex duce, e uno studio computerizzato sulle fotografie e sulle riprese cinematografiche dei corpi sospesi al traliccio di Piazzale Loreto e sul tavolo dell'obitorio di Milano, sulle armi impiegate e i bossoli rinvenuti, nonché sulle cartelle cliniche di Mussolini in vita.
Tale indagine ha condotto l’anatomopatologo torinese ad affermare che la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini non sarebbe determinante in rapporto alla individuazione dell’orario dell’uccisione, in quanto risulta senza ombra di dubbio che il capo del fascismo fosse sofferente di ulcera ed osservasse da anni una dieta tale da permettere al suo stomaco di svuotarsi del cibo in un paio d’ore circa. Inoltre il docente universitario smentisce lo studio del dr. Alessiani, sostenendo che al momento dello scatto delle foto e delle riprese in Piazzale Loreto, la rigidità del corpo dell’ex duce fosse ancora nella fase iniziale, a dimostrazione di un orario del decesso non anteriore alle 16.00-16.30 del giorno precedente, coincidente con quello della versione ufficiale fornita da Walter Audisio.
Inoltre, sulla base del posizionamento dei fori di entrata e di uscita nei due cadaveri, rilevata in base alle foto delle salme e alla necroscopia Cattabeni, il prof. Baima Bollone riterrebbe logico presumere che “l’azione determinante i due decessi sia stata effettuata da due tiratori, dei quali il primo posto frontalmente al bersaglio costituito dalla Petacci e da Mussolini, affiancati e leggermente sopravanzatisi l’una all’altro, e il secondo lateralmente”. Quest’ultima asserzione, pur non entrando nel merito dell'identificazione dei due tiratori, sembra avvalorare la meccanica della vicenda riportata nelle dichiarazioni del partigiano “Sandrino” al Corriere d'Informazione, nel 1945.
Infine, nel 2009, i ricercatori Cavalleri, Giannantoni e Cereghino, effettuarono un attento esame dei documenti dei servizi segreti americani degli anni 1945 e 1946, desecretati dall'amministrazione Clinton. Dall'esame dei tre ricercatori sono emersi due rapporti segreti dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, il primo datato ai primi di maggio del 1945 ed il secondo il 30 maggio 1945. L'agente americano, dopo aver ascoltato il resoconto di alcuni "testimoni oculari", indica esattamente orario e luogo della fucilazione (poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile 1945, davanti a Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra) esattamente coincidenti con quelli derivati dalla versione storica. I due rapporti, peraltro, non sono perfettamente chiari per quanto riguarda l'identificazione degli autori.
Secondo il rapporto del 30 maggio - più esauriente del precedente - la fucilazione sarebbe stata condotta da tre uomini: un "capo partigiano", (che gli autori della ricerca hanno identificato in Aldo Lampredi), un uomo in vestito civile (identificato dall'agente OSS nel "colonnello Valerio"), e un uomo in divisa da partigiano (Michele Moretti). I colpi sparati dal "civile", armato di revolver, avrebbero raggiunto obliquamente Mussolini sulla schiena e, subito dopo, l'uomo in divisa da partigiano gli avrebbe sparato direttamente al petto con un mitra. Poi sarebbe stata la volta della Petacci, raggiunta da diversi colpi al petto. Il precedente rapporto dei primi di maggio, tuttavia, non descrive il "colonnello Valerio" come indossante un vestito civile, ma una divisa da partigiano color mattone con i gradi di colonnello sulla bustina. Ciò è conforme con tutte le descrizioni di Audisio-"Valerio", comunemente fornite dai testimoni.
Il rapporto del 30 maggio, inoltre, conclude che, in un secondo momento, sarebbe intervenuto nell'esecuzione un partigiano locale (identificato in Luigi Canali, accreditato dall'agente statunitense come uno dei suoi confidenti), il quale, dopo esser stato fatto avvicinare dal "capo partigiano", avrebbe scaricato due ultimi colpi con la sua pistola sul corpo del duce, perché ancora vivo. L'introduzione di un terzo "tiratore" nella vicenda, contrasta con la meccanica dell'azione emersa dai rilievi del prof. Baima Bollone.
Lo scrittore Alberto Bertotto e la figlia naturale di Mussolini, Elena Curti, sostengono che il duce, mentre era a letto nella casa dei De Maria a Bonzanigo, ormai convinto della fine, avesse ingerito del cianuro tramite una capsula incastrata sotto un dente (mancante nell'autopsia) e datagli da Hitler. Fu trovato dalla Petacci che si mise a gridare e accorsi i due guardiani, i partigiani Giuseppe Frangi, “Lino”, e Guglielmo Cantoni, “Sandrino” si resero conto della situazione trovandolo in fin di vita. Frangi avrebbe allora finito l'incosciente Mussolini, successivamente trascinato fuori e colpito ancora. La Petacci venne uccisa con una raffica alla schiena. L'esecuzione a Giulino da parte di Audisio, sarebbe soltanto una messinscena. I colpi di arma da fuoco sarebbero stati inferti infatti mentre Mussolini era a torso nudo e non vestito con la giacca che aveva mentre portavano il corpo a Piazzale Loreto.
WALTER AUDISIO, "COLONNELLO VALERIO"
Walter Audisio era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d'assalto Garibaldi e a quello del CVL. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l'uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l'ex duce era stato fucilato dal "colonnello Valerio", senza conoscerne l'esatta identità. La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano "L'Unità", organo del PCI, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento.
Nel volume "In nome del popolo italiano", uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell'incontro con il comandante della 52ª Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti ad una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell'art. 15 del documento del CLNAI sulla costituzione dei tribunali di guerra. Non tutti sono d'accordo con questa interpretazione in quanto, nell'occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra. Dell'intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all'epoca parlamentare, l'apposita Giunta concesse l'autorizzazione a procedere. Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il "colonnello Valerio" dall'accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di una azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili.
Alcuni autori hanno identificato la figura del "colonnello Valerio" con Luigi Longo "Gallo", comandante generale delle Brigate Garibaldi e futuro segretario nazionale del P.C.I.. In realtà la presenza di Longo a Mezzegra al momento della fucilazione di Mussolini, avvenuta intorno alle ore 16.00, deve escludersi, dato che, come è confermato dalle numerose fotografie dell'evento che lo ritraggono, nel corso del pomeriggio del 28 aprile 1945, il medesimo era presente in Piazza Duomo a Milano alla manifestazione conclusiva della grande sfilata, partita alle ore 15.00, dei garibaldini della Valsesia e della Valdossola guidati da Cino Moscatelli. Nel caso che Mussolini fosse stato ucciso la mattina attorno alle 9:00, Longo potrebbe essere arrivato a Milano in tempo per incontrare Moscatelli il pomeriggio.
La sostenibilità dell'identificazione di "Valerio" con Longo, pertanto, è possibile solo anticipando la fucilazione nella tarda mattinata del 28 aprile e introducendo l'ulteriore tesi di una seconda fucilazione dei cadaveri nel pomeriggio; anche in tal caso, inoltre, non sarebbe chiara l'identità dell'autore della seconda fucilazione delle 16.00-16.30 e, soprattutto, di colui che, tra le 17.00 e le 18.00 del pomeriggio medesimo si è ripresentato a Dongo, come "colonnello Valerio", per fucilare i quindici prigionieri catturati insieme all'ex duce e alla Petacci. Né si comprende per quale motivo il partigiano Urbano Lazzaro "Bill", colui che arrestò Mussolini il pomeriggio del 27 aprile, si sia pronunciato a favore dell'identificazione di "Valerio" con Longo soltanto a partire dal 1993 e non abbia testimoniato ciò al processo del 1957, di cui è cenno in premessa.
All'udienza del 24 maggio 1957, inoltre, i componenti del CLN Oscar Sforni e Cosimo De Angelis, hanno confermato che a Como, nella tarda mattinata del 28 aprile 1945, un comandante partigiano si era presentato come "colonnello Valerio", e che poi lo seguirono a Dongo, dove lo raggiunsero intorno alle 14.00-14.10. Anche anticipando la fucilazione di Mussolini - dunque - nella tarda mattinata del 28 aprile il "colonnello Valerio" non poteva trovarsi a Mezzegra.
Nell'intervista al Corriere d'Informazione del 22 ottobre 1945, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", dichiarò di aver visto il “colonnello Valerio” sparare a Benito Mussolini con una pistola, senza rivelarne l'identità. È appurato, peraltro, che, al momento dell'esecuzione, il possessore di un'arma simile – ed esattamente una pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm fosse Aldo Lampredi e non Walter Audisio, che invece imbracciava un mitra Thompson[54].
Anche il rapporto segreto datato 30 maggio 1945 dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, sembrerebbe indicare il “colonnello Valerio” nella persona di Aldo Lampredi, raffigurandolo in un uomo in vestito civile, armato di revolver. Aldo Lampredi, infatti – come riferiscono concordemente le testimonianze raccolte a Milano, a Como e a Dongo - il 28 aprile 1945 indossava un impermeabile bianco, mentre Walter Audisio aveva indosso una divisa da partigiano color kaki o rosso-mattone con i gradi di colonnello.
L’ipotesi che a uccidere Mussolini sia stato Aldo Lampredi e non Walter Audisio è stata addotta nel 1997 da Massimo Caprara, nel volume “Quando le Botteghe erano oscure”, pur senza citare il nome di battaglia dell’autore dell’esecuzione. Caprara, già segretario particolare di Palmiro Togliatti e in seguito uscito dal PCI per fondare il gruppo del “Manifesto”, dichiara di aver raccolto, in proposito, le confidenze dello stesso Togliatti e di Celeste Negarville, all’epoca direttore dell’Unità. A domanda, sembra che Togliatti abbia risposto al suo segretario: “No, non è lui (Audisio, n.d.r.). Abbiamo deciso di coprire l’autore dell’esecuzione di Mussolini. L’uomo che ha sparato è Lampredi”.
Successivamente Negarville confermò l’attribuzione dell’esecuzione a Lampredi, svelando anche i retroscena dell’insabbiamento: “(Togliatti) si premurò d’una cosa soprattutto: proteggere il funzionario kominternista che è Lampredi. Non solo sottraendolo alla curiosità della gente, ma salvandolo da una auto-esaltazione che avrebbe potuto travolgerlo: sentirsi all’improvviso il vendicatore-eroe, dopo una vita grigia e ingrata. Lui ha sparato a Mussolini. Con la Petacci non c’entra. Si limitò a prelevare Mussolini da casa De Maria e a portarlo con lo stivale rotto fino al cancello di Villa Belmonte. Queste cose le riferì a Luigi Longo il responsabile di partito per tutta l’operazione: Dante Gorreri”.
LA FUCILAZIONE DEI GERARCHI
Partito da Giulino, verso le ore 17:00 del 28 aprile Valerio è a Dongo per dirigere la fucilazione degli altri gerarchi fascisti che nel frattempo erano stati radunati nel municipio. I nominativi erano stati indicati da "Valerio" stesso prima di partire per la Tremezzina osservando la lista dei prigionieri italiani catturati dalla 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici". Si tratta di:
Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR
Francesco Maria Barracu, colonnello, sottosegretario alla presidenza del Consiglio
Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare
Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni
Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici
Paolo Zerbino, Ministro dell'Interno
Luigi Gatti, ex prefetto di Milano, segretario di Mussolini
Paolo Porta, federale di Como
Idreno Utimpergher, comandante della brigata nera di Empoli
Nicola Bombacci, tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia (1921), poi aderente al fascismo
Pietro Calistri, capitano pilota dell'Aeronautica Nazionale Repubblicana
Goffredo Coppola, rettore dell'Università di Bologna
Ernesto Daquanno, giornalista, direttore della Agenzia Stefani
Mario Nudi, impiegato della Confederazione fascista dell'Agricoltura e "moschettiere del Duce"
Vito Casalinuovo, colonnello della GNR, ufficiale d'ordinanza di Mussolini.
Ad essi va aggiunto anche Marcello Petacci, che al momento dell'arresto si spacciava per console spagnolo. Valerio, conoscendo il castigliano, a differenza di Audisio che non andò mai in Spagna perché confinato a Ventotene (Bernini: "Il giustiziere di Dongo"), aveva smascherato subito il millantatore e, scambiandolo per Vittorio Mussolini aveva ordinato la sua fucilazione. Però Urbano Lazzaro "Bill", scoprendo finalmente la sua vera identità, l'aveva sospesa.
Venuto a conoscenza dei modi sbrigativi del Colonnello Valerio, il sindaco del paese avvocato Giuseppe Rubini, figlio di Giulio Rubini, protesta fortemente opponendosi e cercando di porre il veto. Non riuscendo ad ottenere risposta dà le dimissioni, ritira dalla finestra del municipio la bandiera esposta e si rinchiude in casa.
I giustiziandi vengono allineati contro la ringhiera metallica del lungolago del paese, con il viso verso il lago e le spalle al plotone d'esecuzione e, dopo aver ricevuto una comune assoluzione da padre Ferrari Accursio del vicino santuario francescano della "Madonna delle lacrime", a cui "Valerio" ha concesso tre minuti per fornire i conforti religiosi ai condannati, vengono giustiziati alle ore 17:48 (testimonianza Rubini).
Viene respinta la richiesta di Barracu di non essere fucilato alla schiena, il plotone di esecuzione è comandato da Alfredo Mordini "Riccardo", già combattente garibaldino nella guerra civile spagnola.
Il numero dei fucilati eguaglia quello dei partigiani, che, per rappresaglia, il 10 agosto 1944, i tedeschi avevano fatto fucilare dai fascisti ed esporre al pubblico in Piazzale Loreto a Milano, ciò dimostrerebbe l'intenzione di voler vendicare quella strage, (anche se in realtà, con Mussolini, Clara e Marcello Petacci, gli uccisi furono 18).
Terminata la fucilazione, a seguito di alcuni gerarchi che non erano stati colpiti, da ogni parte si comincia a fare fuoco sui corpi a terra e per aria, un paio di minuti di baccano infernale: spari, urla, fuggi fuggi, odore di zolfo e di sangue, qualcuno rimane ferito, terminati i quali nel silenzio,sono sparati i colpi di grazia.
Marcello Petacci è stato ucciso dopo gli altri, perché i gerarchi non lo consideravano dei loro. Anzi, al momento dell'allineamento, lo insultarono dicendo che era un "ruffiano" e chiesero un'esecuzione separata, richiesta che venne accettata. Però, arrivato il suo turno, riuscì a fuggire e a gettarsi nelle fredde acque del lago dove venne raggiunto da una pioggia di proiettili che lo finirono.
I FATTI DI PIAZZALE LORETO
A Dongo tutti i 16 cadaveri dei fucilati vengono caricati su un camion, sopra di loro viene steso un telo su cui siederanno i partigiani durante il viaggio. Il veicolo parte per Milano verso le 18:00, fermandosi prima ad Azzano per recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci lasciati nel frattempo sotto la pioggia. Durante il viaggio di ritorno la colonna è costretta a fermarsi in diversi posti di blocco partigiani che creano diversi problemi: in particolare a Milano, in via Fabio Filzi (vicino gli edifici della Pirelli) durante un controllo operato da una formazione delle Brigate Garibaldi vi sono momenti di tensione quando i partigiani a bordo del camion si rifiutano di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiano sino all'intervento del comando generale che permette il proseguimento della colonna alla vicina destinazione finale.
Alle 3:40 di domenica 29 aprile la colonna giunge in Piazzale Loreto, meta che secondo Walter Audisio non fu casuale o improvvisata, ma meditata per il suo valore simbolico. Qui Valerio decide di scaricare i cadaveri a terra, proprio dove le vittime della strage del 10 agosto 1944 erano state abbandonate in custodia ai militi fascisti della Muti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
In piazzale Loreto furono portati diciotto cadaveri: Benito Mussolini, Clara Petacci e i sedici giustiziati a Dongo.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme ancora dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Complice un passaparola che in poco tempo attraversò tutta Milano, la piazza si riempì velocemente. Non era stata prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri, calpestandoli e sfigurandoli. Molti insultavano, dileggiavano, sputavano e prendevano a calci i cadaveri. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti in guerra. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi, a Mussolini per dileggio venne messo in mano un gagliardetto fascista. Qualcuno orinò sul cadavere della Petacci. Alle 11 la situazione non era più governabile neanche con scariche di mitra. Una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte lavò abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi.
A quel punto gli stessi pompieri trassero via dal centro della piazza i sette cadaveri più noti, issandoli per i piedi alla pensilina del distributore di carburante Standard Oil (poi Esso) che si trovava all'angolo fra la piazza e corso Buenos Aires e lasciandoli lì appesi a testa in giù. Si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci alla quale, essendo stata privata delle mutande, venne dapprima fermata la gonna con una spilla ed infine assicurata meglio con la cintura che il cappellano partigiano don Pollarolo si sfilò appositamente, di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino, di Ferdinando Mezzasoma, di Marcello Petacci e di Francesco Maria Barracu, il cui cadavere però cadde subito a terra e verrà sostituito con quello di Achille Starace.
Arrivarono sul luogo anche numerosi fotografi e nel corso della mattinata arrivò anche una pattuglia di soldati americani assieme ad una troupe di cineoperatori militari che filmò la scena, che successivamente sarà inserita in uno dei combat film prodotti nel corso del conflitto; un altro filmato venne girato da Carlo Nebbiolo, presente sul luogo assieme al fotografo Fedele Toscani dell'agenzia Publifoto, la pellicola del suo filmato fu sequestrata dalle truppe alleate e restituita in seguito con vistosi tagli, tra cui l'eliminazione della sequenza sulla fucilazione di Starace. Le numerose fotografie scattate in quelle ore animarono, nei giorni seguenti, un fiorente mercato venendo vendute come un ricercato "souvenir di un momento vissuto", bloccato dopo due settimane dal nuovo prefetto cittadino che ordinò l'immediato sequestro delle fotografie dalle cartolerie e la loro rimozione da ogni luogo pubblico.
Verso mezzogiorno, con una camionetta, viene condotto sul luogo anche Achille Starace, ex segretario generale del Partito nazionale fascista, arrestato per le vie di Milano in zona ticinese, giudicato in un'aula del vicino Politecnico e fucilato da un plotone improvvisato di partigiani alla schiena, sul marciapiede a lato del distributore ove erano stati appesi gli altri cadaveri.
Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento "Canevari" della brigata "Crespi", su ordine del comando, entrò in piazza e rimosse i cadaveri trasportandoli nel vicino obitorio di piazzale Gorini.
In serata, il CLNAI riunito emanava una comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell'esecuzione di Mussolini quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale. La massima istituzione resistenziale affermava la volontà di rompere con il fascismo, segnando la fine di un periodo storico di vergogne e di delitti ed inaugurando l'avvento di una nuova Italia, fondata sull'alleanza delle forze che avevano preso parte alla lotta contro la dittatura.
L'AUTOPSIA DEL CORPO DI MUSSOLINI
Il giorno seguente alle ore 7,30 presso il civico obitorio dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Milano in via Ponzio il professor Mario Cattabeni sotto la sorveglianza del generale medico "Guido" effettuò l'autopsia sul solo corpo di Mussolini. Il riscontro diagnostico riscontrò sul cadavere sette fori di proiettile in entrata e sette fori in uscita sicuramente prodotti in vita e sei fori successivi alla morte ed individuò come causa mortis la recisione dell'aorta da parte di un proiettile. L'autopsia venne eseguita, scrisse Cattabeni, "in condizioni di tempo e di luogo del tutto eccezionali" entro "una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo".
Prima e dopo l'autopsia furono scattate numerose fotografie, sia mettendo macabramente in posa i cadaveri di Mussolini a Petacci abbracciati, sia dell'equipe forense a fianco del cadavere, immagini del cadavere svestito col torace ricucito a fine autopsia e infine dei corpi deposti entro le casse di legno usate come bare.
Qualche giorno dopo l'autopsia, il 4 maggio le autorità militari alleati richiesero al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, a titolo di favore, un campione di tessuto cerebrale del defunto da inviare a Wilfred Overholser direttore dell'ospedale psichiatrico St. Elizabeth di Washington d.c., garantendo che verrà utilizzato per scopi scientifici ed i risultati della sua analisi non saranno soggetti a pubblicazione, lo scopo di "medical intelligence" escludente pubblicazioni sarà ribadito nella ricevuta rilasciata il 24 maggio alla consegna del campione.
Il 9 giugno il colonnello Poletti richiese infine due copie autenticate del referto dell'autopsia da consegnare al console americano a Lugano, incaricato di redigere un rapporto ufficiale sugli ultimi giorni di vita di Mussolini.
Nel novembre 2009 alcuni vetrini istologici con sezioni del cervello, vennero posti in vendita su E-bay, con una base d'asta di 15.000 Euro, da un collezionista italiano di cimeli storici, che li aveva avuti in dono da un tecnico analista, assistente di Cattabeni incaricato di preparare i reperti nel maggio 1945. L'offerta di vendita, fu ritirata dal sito dopo poche ore, in quanto contraria alla "policy" del sito che vieta la vendita di materiale organico umano.
In un'intervista radiofonica tra un giornalista ed un medico legale che avrebbe assistito all'autopsia dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci, il medico, all'epoca poco più che ventenne, affermò che Mussolini e la sua compagna non sarebbero morti nel modo in cui hanno sempre raccontato tutti. Il medico affermò difatti che Mussolini e la sua compagna sarebbero stati prima seviziati, torturati e picchiati e poi, una volta morti, fucilati. Su entrambi, sempre secondo il medico, sarebbero stati riscontrati segni evidenti di violenza sessuale.
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