Come già accennato, nel Mein Kampf Hitler illustrò non solo quelle che erano le sue idee politiche e di conquista del dominio in Europa, ma soprattutto mise in luce il suo antisemitismo, ovvero il suo odio profondo verso gli ebrei e la superiorità della razza ariana.
Una volta arrivato al potere, la politica del Fuhrer si mantenne inizialmente su toni abbastanza moderati, per non allarmare l'elettorato moderato. Ma l'antisemitismo covava già nell'animo di molti tedeschi e i nazisti non fecero altro che riaccenderlo. In particolare, per i nazisti gli ebrei erano la causa principale dei problemi della Germania.
Già dall'aprile del 1933, i medici, negozianti ed avvocati di origini ebraica subirono i primi boicottaggi. Con la legge di "ripristino dell'impiego nel pubblico servizio", agli ebrei venne preclusa ogni possibilità di lavorare al servizio dello Stato, riservando ai soli tedeschi "ariani" le posizioni privilegiate e destinando gli ebrei ai lavori più umili.
Dal 1935, però, la persecuzione nei confronti degli ebrei subì un'accelerazione: a maggio vennero banditi dall'esercito e, nell'estate, i negozi cominciarono ad esporre i cartelli "vietato l'ingresso agli ebrei".
Il 15 settembre 1935 vennero promulgate le famigerate Leggi di Norimberga. Queste impiegavano una base pseudo-scientifica per la discriminazione razziale nei confronti degli ebrei: in particolare, chi poteva provare di avere quattro nonni tedeschi venne considerato di "sangue tedesco", mentre venne considerato ebreo chi aveva tre o quattro nonni ebrei; chi, invece, aveva uno o due nonni ebrei, era considerato di sangue misto. Vi erano poi i sub-umani: coloro che non avevano differenze esteriori visibili, ma la cui fede religiosa era sufficiente a qualificarli come ebrei e quindi, appunto, sub-umani.
Queste leggi, che in totale erano due, vennero annunciate appunto il 15 settembre 1935 durante l'annuale congresso del partito nazista a Norimberga: la prima, legge sulla cittadinanza del Reich, negava agli ebrei la cittadinanza tedesca. Gli ebrei non erano quindi più considerati cittadini della Germania, divenendo Staatsangehoriger, ovvero "appartenenti allo Stato". Questo comportò la perdita di tutti i diritti civili, anche di quello di voto; la seconda, legge per la protezione del sangue e dell'onore tedesco, proibiva i matrimoni e le convivenze tra "ebrei" e "tedeschi". Inoltre proibiva alle ragazze "tedesche" al di sotto dei quarantacinque anni di lavorare per famiglie ebree.
Ma non era finito qui: nel 1936, gli ebrei vennero banditi da tutte le professioni, impedendo loro di esercitare una qualunque influenza politica o economica, mentre nel biennio 1937-1938 vennero promulgate leggi che colpirono le finanze degli ebrei, e dal marzo 1938 il governo tedesco non stipulò più contratti con aziende appartenenti ad ebrei, mentre dal settembre dello stesso anno solo dottori "ariani" potevano curare i tedeschi "ariani".
Dall'agosto 1938, inoltre, il governo obbligò i maschi ad inserire nel proprio nome "Israel" e le donne ad inserire "Sarah", mentre da ottobre una grande "J" (Juden), venne timbrata sui loro passaporti. Da novembre i bambini ebrei vennero esclusi dalle scuole pubbliche, mentre dall'aprile 1939 molte imprese ebraiche erano fallite, mentre altre vennero acquistate forzatamente dal governo nazista.
Nonostante le leggi naziste fossero principalmente dirette contro gli ebrei, altre etnie "non-ariane" furono colpite dal rigore della cosiddetta igiene razziale. Di particolare interesse per lo scienziato nazista Eugen Fischer fu una razza meticcia che aveva origine dai soldati di colore (truppe coloniali dell'Africa Occidentale) stanziati in Renania durante l'occupazione francese; oltretutto, queste persone rappresentavano per i nazisti il ricordo della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Fischer ne auspicò la sterilizzazione forzata per preservare la "purezza razziale" del popolo tedesco. Almeno 400 bambini renani meticci vennero sterilizzati entro il 1938 mentre altri 400 vennero deportati nei campi di concentramento. In effetti non ci fu mai alcun tentativo sistematico di eliminare la popolazione di colore dalla Germania, ma i matrimoni "misti" rimasero illegali.
mercoledì 27 febbraio 2013
sabato 23 febbraio 2013
Il consolidamento del potere di Hitler e "La notte dei lunghi coltelli"
Conquistato il cancellierato, Hitler instaurò sin da subito un regime totalitario, istituendo con provvedimenti legislativi un governo centrale allineato. Nel marzo 1933, il Decreto dei pieni poteri conferì ad Hitler poteri dittatoriali, autorizzandolo a non rispettare più i principi della Costituzione di Weimar. Da quel momento, inoltre, il partito nazista si dedicò all'eliminazione sistematica di tutti i suoi oppositori politici: messi fuori legge i comunisti con il decreto sopracitato, nel giro di pochi mesi vennero messi al bando i socialdemocratici e vennero obbligati a sciogliersi i nazionalisti, il Partito Popolare, il Partito dello Stato Tedesco e, infine, il Centro Cattolico, quest'ultimo dopo aver ottenuto dai nazisti garanzie sul sistema educativo cattolico e i gruppi giovanili. Il 14 luglio 1933, il Partito Nazionalsocialista era l'unico partito della Germania!
Nel primo anno di regime, ci fu una notevole ripresa economica e un forte aumento del consenso della popolazione: la disoccupazione era diminuita di oltre il 40% grazie anche al riarmo clandestino e a molte opere pubbliche, in particolare la Reichsautobahn, che coinvolse ben 100000 lavoratori. Nonostante la privazione delle libertà civili e delle repressioni politiche, il popolo tedesco nutriva grandi speranze.
La situazione economica tedesca si prospettava dunque molto favorevole, tanto che il presidente Hindenburg, il 30 gennaio 1934, giorno del primo anniversario dalla nomina di Hitler a cancelliere, inviò un messaggio al dittatore per congratularsi per i successi ottenuti fino a quel momento.Tra i vertici delle SA, però, c'era del malcontento, in quanto secondo loro, Hitler avrebbe tradito l'originario scopo della rivoluzione nazionalsocialista. Secondo Rohm, infatti, Hitler si sarebbe discostato dal progetto anticapitalista del partito, accordandosi con affaristi, industriali e aristocratici: Rohm non nascose, quindi, il desiderio di una seconda rivoluzione, attaccando più di una volta l'operato del governo e coltivando l'idea che le sue SA avrebbero dovuto trasformarsi in un vero e proprio esercito.
Hitler, ovviamente, era contro l'idea di una seconda rivoluzione, considerando di primaria importanza la ripresa economica e militare della Germania. L'intransigenza delle SA, invise ai "poteri forti" dello Stato tedesco, rischiò di far naufragare i piani di riarmo e di politica estera del dittatore, tanto da portarlo ad affermare che "la rivoluzione non è uno stato di cose permanente", e che si doveva procedere ad un'evoluzione dello stato di cose: Hitler, in questo modo, prese distanza da coloro che lo avevano aiutato, con la forza ed il terrore, a conquistare il potere.
Hitler, per ridurre la sfera di influenza delle SA, all'inizio dichiarò che avrebbe soffocato qualunque tentativo di turbare l'ordine pubblico, e successivamente sciolse l'organi di polizia ausiliaria creata da Rohm in Prussia, dando ordine a Goring e a Rudolf Dies di costituire una polizia segreta di Stato, la Gestapo, il cui comando venne affidato ad Himmler e ad Heydrich. Per evitare l'acuire di tensioni tra Stato ed SA, nel dicembre 1933 Hitler nominò Rohm ministro senza portafoglio, come ringraziamento per i servizi resi al partito, ordinando al tempo stesso a Dies di raccogliere informazioni incriminanti sulle SA.
Con la diminuzione del potere di Rohm, aumentò il potere ed il ruolo delle SS, ed i personaggi che odiavano il capo delle SA, assunserouoli chiave nel regime: Goring fu nominato Ministro dell'Interno e Gobbels divenne Ministro della Propaganda, mentre Himmler creò, con un contingente di 120 uomini comandati dallo Standartenfuhrer Dietrich, l'esclusiva guardia personale di Hitler, la Leibstandarte-SS Adolf Hitler.
Ulteriore motivo di tensione fu il tentativo di Rohm di far in modo che le SA assumessero non solo il ruolo di forza di riserva all'interno del Reichswehr (l'esercito tedesco), ma addirittura di divenire un'unità facente parte a tutti gli effetti dell'esercito. Questa prospettiva era invisa negli ambienti aristocratici militari e nello Stato maggiore generale, ed Hitler, nel febbraio 1934, per risolvere una volta per tutte la questione, organizzò una riunione con Rohm e i vertici dell'esercito per consentire che le SA venissero inquadrate almeno come una milizia, ma il rifiuto fu netto. Come contentino, fu concesso a Rohm che le SA, in tempo di guerra, avrebbero potuto combattere a fianco dell'esercito, ma solo entro i confini della Germania.
Il capo delle SA, firmato il documento che formalizzava le decisioni di Hitler, successivamente si lasciò andare ad uno sfogo contro il dittatore, accompagnato anche da altri esponenti delle SA. Le frasi furono ovviamente subito riferite ad Hitler, rendendo ancora più insanabile la frattura.
In questa situazione, divenne ancora più stretto non solo il rapporto tra Hitler, Goring, Himmler, Heydrich ed Eicke, ma anche la loro avversione verso Rohm e le SA, che nel frattempo non avevano alcuna intenzione di sotterrare le loro idee rivoluzionarie e contestavano apertamente gli esponenti più in vista del partito nazista.
Anche Hindenburg, il 21 giugno, in un incontro con il Cancelliere, si disse stanco delle intemperanze delle SA e che era deciso a far entrare in vigore la legge marziale.
Le intenzioni di Hindenburg, unite all'opera di Himmler ed Heydrich che diffondevano "l'idea" che le SA stessero preparando un colpo di stato per rovesciare Hitler, indussero il dittatore ad agire in modo diretto nei confronti Rohm e dei suoi seguaci. La sera del 29 giugno, mentre si trovava insieme a Gobbels al Rheinhotel Dreesen di Bad Godesberg, venne presa questa decisione ed il dittatore convocò Dietrich ordinandogli di partire immediatamente per Monaco insieme alla sua Liebstandarte: alcuni esponenti delle SA, tra cui Rohm, erano in vacanza in una località a 60 km da Monaco, Bad Wiessee. Durante la riunione, arrivarono tre messaggi: uno, di Goring, che informava sul peggioramento dello stato di salute di Hindenburg; un altro, di Heydrich, che informava sull'arrivo, dal Belgio, di un carico di armi per le SA, intercettato; l'ultimo, di Himmler, che informava che lo Stato Maggiore delle SA avrebbe ordinato lo stato di allarme generale per le ore 16 e che alle 17 si sarebbero dovuti occupare i palazzi del governo.
Gli ultimi due rapporti dettero ad Hitler lo sprone per dare il via all'epurazione, giustificandola agli occhi del Paese con l'intenzione delle SA di organizzare un colpo di Stato. Ricevuta la notizia dell'arrivo di Dietrich a Monaco, gli dette l'ordine di dirigersi con le sue unità di SS verso Bad Wiessee per circondare le pensione dove si trovavano Rohm e alcuni suoi seguaci. Hitler gli dette l'ordine di agire solo dopo che ricevette notizie che le SA erano scese in strada a gridare slogan contro di lui e l'esercito. All'01:00 del 30 giugno, Hitler si recò a Monaco dove l'unità Totenkopf, comandata da Eicke, era in attesa di ulteriori ordini avendo ricevuto ad Himmler la consegna di tenersi pronta per un'azione contro le SA di Monaco, Lechfeld e Bad Wiessee, tanto che, dal 24 giugno, era già stata preparata una lista di personalità da eliminare, che venne poi consegnata a varie unità di SS. Questa lista, unita ai documenti che provavano l'intenzione delle SA di ordire un colpo di Stato, venne consegnata da Dietrich a Von Blomberg, comandante della Reichswehr, per rassicurare gli alti comandi dell'esercito dell'autenticità delle notizie di un possibile complotto.
Hitler arrivò a Monaco alle 04 e venne accolto da un ufficiale del Wehrkreis VII (distretto militare di Monaco), da un ufficiale dell'Abwehr (servizio informazioni militare) e da un ufficiale delle SS, che informò il dittatore che le SA scese in strada per dimostrare erano rientrate nei loro alloggi.
Dopo aver constatato che la situazione era calma, Hitler ordinò alla polizia politica bavarese di arrestare i capi delle SA presenti in città e di sorvegliare, con le SS, la stazione ferroviaria, dove sarebbero giunti in giornata degli inviati di Rohm. Il dittatore si recò al Ministero degli Interni bavarese dove, appena entrato, fece arrestare l'Obergruppenfuhrer Schneidhuber, che venne condotto direttamente al carcere di Stadelheim, insieme al Gruppenfuhrer Will Schmidt, convocato da Wagner, ministro degli Interni, a cui Gobbels consegnò la lista degli esponenti delle SA da arrestare. Le SS, nel frattempo, circondarono il quartier generale delle SA, mentre Hitler e Gobbels si recarono a Bad Wiessee.
Insieme alle SS di Dietrich si diressero alla pensione dove si trovavano Rohm e alcuni suoi seguaci e la circondarono. Le SS fecero irruzione ed arrestarono le SA, sorprese nel sonno. Hitler procedette personalmente all'arresto di Rohm e dei suoi vice. Alle 07, terminata l'operazione, il convoglio tornò verso Monaco e per strada incrociarono alcuni ufficiali delle SA che si stavano recando a Bad Wiessee e che vennero immediatamente fermati ed arrestati a loro volta. Alle 08, mentre gli arrestati venivano condotti alla prigione di Stadelheim, Hitler si recò alla stazione di Monaco per incontrare Rudolf Hess ed arrestare alti ufficiali delle SA appena giunti in città. Alle 10 il Cancelliere di recò al quartiere generale delle SA dove chiamò Goring per autorizzarlo a dare il via alle operazioni anche a Berlino.
Qui Heydrich dette ordine alle SS di aprire i plichi contenenti i nomi delle persone da arrestare od eliminare. Mentre a Monaco vennero colpiti solo i vertici delle SA, le operazioni a Berlino coinvolsero anche personalità considerate nemiche del regime: caddero vittime delle SS personaggi quali Klausener, presidente dell'Azione Cattolica; Gustav Von Kahr, che aveva contribuito a far fallire il putsch di Monaco e ucciso a picconate; padre Stempfle, scrittore antisemita colpevole di aver raccolto le confidenze di sua nipote, Geri Raubal, amata da Hitler e poi morta suicida; il generale Von Bredow; Herbert Von Bose, stretto collaboratore di Von Papen; Gregor Strasser; Kurt Von Schleicher, ucciso insieme alla moglie.
Nello stesso momento, a Monaco, Hitler diramava gli ordini su quello che sarebbe stato il destino delle SA non arrestate o destinate alla pena capitale: esse, da quel momento, avrebbero obbedito ciecamente solo a lui, e venne nominato capo Viktor Lutze, ex collaboratore di Rohm che si era sin da subito dichiarato fedele al Fuhrer. Lutze cominciò a stendere la lista dei reclusi a Stadelheim che dovevano essere immediatamente giustiziati (tranne Rohm) e venne consegnata a Dietrich, che si occupò di eseguire gli ordini. Terminate le esecuzioni, Hitler radunò le SA catturate nel loro quartier generale e gli offrì la possibilità di salvarsi rinnegando i loro capi e piegarsi a lui: queste accettarono, ma dovettero sottostare all'ordine di non riunirsi fino a quando le SA non sarebbero state ricostituite.
Alle 19, Hitler, Gobbels, Hess e Dietrich ritornarono a Berlino e mentre erano in viaggio, alle ore 20, l'ufficio stampa del partito nazista diramò via radio un comunicato secondo cui le SA avrebbero ordito un colpo di Stato, dando anche risalto alle tendenze sessuali di alcuni dei suoi capi. Goring, in una riunione con la stampa estera, disse che anche Von Schleicher aveva complottato contro lo Stato, restando ucciso in quanto si era opposto all'arresto.
Alle 23 le esecuzioni del 30 giugno terminarono, ed il 1° luglio i giornali rassicurarono circa lo sventato pericolo di una seconda rivoluzione da parte delle SA. Il generale Von Blomberg diramò poi un comunicato alle truppe ringraziandole per l'azione compiuta. Restava oramai da decidere il solo destino di Rohm: alle 13, dopo una riunione con Goring e Himmler, Hitler contattò il Ministero degli Interni bavarese, dove in quel momento si trovava Eicke, ordinandogli di uccidere il capo delle SA, con l'unica alternativa di proporgli il suicidio. Eicke si recò così alla prigione di Stadelheim, e lasciò a Rohm una pistola con un solo colpo in canna ma, tornato dopo dieci minuti, lo trovò ancora in vita: dette così ordine ad un suo sottoposto di sparargli, ed il capo delle SA cadde mormorando "mein Fuhrer".
Le esecuzione proseguirono fino alle 04 del 2 luglio, quando finalmente Hitler vi pose ufficialmente fine: i vertici delle SA erano stati decapitati ed erano stati eliminati anche vecchi ufficiali ostili al regime e oppositori della classe conservatrice, ma non fu possibile stabilire un numero esatto delle vittime.
Hindenburg inviò lo stesso giorno un telegramma ad Hitler e Goring per ringraziarli di quello che avevano fatto. Il 3 luglio, il Governo licenziò una legge, di un unico articolo, che diceva che: "le misure prese il 30 giugno, il 1 e 2 luglio 1934 per reprimere gli attentati alla sicurezza del paese e gli atti di alto tradimento sono conformi al diritto in quanto misura di difesa dello Stato". Questa legge, in pratica, autorizzava Hitler a compiere qualunque azione in difesa dello Stato.
Il 13 luglio Hitler tenne un discorso in un teatro dell'opera di Berlino e due giorni dopo l'esercito dichiarò, in una grande manovra, la sua totale fedeltà al Fuhrer.
Il 2 agosto Hindenburg morì, ed Hitler ne approfittò per unire in un'unica persona le due figure di Cancelliere e di Presidente, insieme al titolo di comandante delle forze armate del Reich: ufficiali e soldati gli prestarono giuramento, ed il 19 agosto i tedeschi, con l'89,93% dei voti, approvarono l'avvento di Hitler alla presidenza della Germania.
martedì 19 febbraio 2013
La Campagna d'Etiopia e l'autarchia
Già dal 1929, uno dei sogni di Mussolini era quello dell'espansione coloniale: nonostante l'Italia avesse già colonizzato l'Eritrea, la Libia e la Somalia, il dittatore voleva ricostruire un impero, sulla falsa riga dell'Impero romano! Come obiettivo venne scelta l'Etiopia, governata dal negus Haile Selaisse, che alla fine dell'800 aveva già severamente sconfitto le truppe italiane di invasione.
Già dal novembre 1934 cominciarono le prime scaramucce con il Paese del Corno d'Africa: in particolare, il 4 novembre, gruppi armati etiopici attaccarono il consolato italiano di Gondar, mentre il 5 dicembre 1500 soldati abissini attaccarono, a Ual Ual, una postazione italiana, causando 80 vittime tra i difensori.
Mussolini chiese le scuse ufficiali al governo etiope e il pagamento di un'indennità alle famiglie dei caduti, ma il negus Selaisse decise di rimettersi alla Società delle Nazioni, che si impegnò per un arbitrato tra le parti. Nel gennaio 1935, la Società delle Nazioni riconobbe la buona fede dei due stati per i fatti di Ual Ual e decise che il fatto doveva essere discusso tra le due parti in causa, ma a marzo gli etiopi presentarono un altro ricorso. Nel frattempo, il 23 marzo, una pattuglia abissina oltrepassò il confine con l'Eritrea attaccando alcune guardie di confine ed uccidendo il buluk-basci locale.
A Cagliari, l'8 giugno, Mussolini rivendicò il diritto dell'Italia di attuare la propria politica coloniale e, in un'intervista successiva, il dittatore dichiarò che non sarebbero stati lesi gli interessi di Francia e Gran Bretagna in Africa.
Consapevole che non avrebbe rischiato un conflitto su più fronti (con la dichiarazione di neutralità di Francia e Giappone), il 2 ottobre Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia dove teneva i suoi discorsi più celebri, proclamò, davanti ad una folla estasiata, la guerra all'Etiopia, rispolverando anche i temi della "vittoria mutilata". A questo proclama, però, non seguì una vera e propria dichiarazione di guerra ai rappresentanti dello Stato etiope.
Il 3 ottobre, 100000 soldati italiani ed un considerevole numero di Ascari (militi indigeni), comandati del maresciallo Emilio De Bono, cominciarono ad avanzare dalle loro basi in Eritrea.
Le prime operazioni importanti furono l'occupazione di Adua (6 ottobre), dove nel 1896 subirono una cocente sconfitta dai soldati etiopi, e l'occupazione di Axum (15 ottobre), capitale religiosa dell'Etiopia. Il 9 novembre venne presa anche Macallè.
Intanto, da sud, il generale Graziani, con un contingente, partì dalla Somalia e in venti giorni occupò i presidi etiopi di Dolo, Ualaddaie, Bur Dodi e Dagnarei.
Nel frattempo, l'11 ottobre, la Società delle Nazioni sanzionò l'Italia per l'invasione con l'embargo su armi e munizioni, divieto di ricevere prestiti, divieto di importare merci italiane, divieto di esportare in Italia merci o materie prime necessarie all'industria bellica. Paradosso, l'embargo non riguardava petrolio e semilavorati...
In realtà, solo la Gran Bretagna rispettò gli accordi. Germania (che era uscita dalla Società delle Nazioni alcuni anni prima) e gli Stati Uniti (che non ne faceva parte) si schierarono dalla parte dell'Italia, mentre l'URSS e la Polonia si dimostrarono comunque molto aperte.
Il 28 novembre, Mussolini decise di sostituire De Bono con il generale Badoglio, che stabilì il proprio quartier generale a Macallè. A dicembre, però, truppe del generale Criniti vennero costrette alla ritirata da alcune avanguardie etiopi al fiume Tacazzè, mentre nel Tembien altre truppe etiopi costrinsero gli italiani a ritirarsi presso il Passo Uarieu.
Il 20 gennaio 1936, il generale Badoglio, per togliere l'iniziativa al nemico, decise di attaccare, occupando alcune posizioni chiave; ma il giorno dopo, la colonna di camicie nere del console Diamanti venne attaccata dagli abissini ed isolata, venendo quasi annientata. Il XII Battaglione Ascari intervenne per trarre in salvo i sopravvissuti, e ripiegarono di nuovo verso il Passo Uarieu, dove gli abissini strinsero d'assedio gli italiani: durante questa battaglia, l'aviazione sganciò bombe ed iprite sulle truppe etiopi. Dopo tre giorni d'assedio, le truppe del generale Vaccarisi riuscì a rompere l'assedio, impedendo così agli etiopi di dilagare nella piana di Macallè.
Il 10 febbraio, Badoglio mosse le truppe verso il massiccio dell'Amba Aradam, che fu rapidamente accerchiato. L'armata del ras Mulughietà attaccò per rompere l'assedio; ma il 15 febbraio, a causa del numero soverchiante delle truppe italiane e all'attacco dell'aviazione, le truppe etiopi furono costrette alla ritirata.
Il 27 febbraio, le truppe italiane attaccarono l'armata etiope disposta sul Tembien, riuscendo ad annientarla anche grazie all'utilizzo dell'iprite e delle bombe. Alcuni reparti italiani riuscirono, inoltre, ad occupare l'Amba Alagi.
Altre truppe italiane attaccarono un'armata etiope attestata nello Scirè: inizialmente, gli etiopi riuscirono ad infliggere importanti perdite agli italiani ma poi, d'accordo con l'imperatore Selaisse, si ritirarono verso il fiume Tacazzè.
Hailè Selaisse, dopo questa sconfitta, radunò le proprie truppe e mosse verso gli italiani a nord. Le due armate di scontrarono nella conca di Mai Ceu: il 31 marzo, gli alpini riuscirono a respingere gli attacchi etiopi,. Vi fu poi un contrattacco da parte degli Ascari e degli alpini. La battaglia si concluse con gravi perdite per entrambi gli schieramenti. Selaisse ordinò la ritirata verso Dessiè, che venne poi occupata dal generale Pirzio Biroli il 15 aprile.
In precedenza, a gennaio, le truppe di Graziani a sud vennero impegnate a Dolo dalle truppe del ras Destà. Saputo in anticipo delle intenzioni etiopi, Graziani ordinò all'aviazione di attaccare le colonne in marcia, utilizzando anche i gas asfissianti. Il 20 gennaio, Graziani occupò Neghelli.
Il 15 aprile, Graziani occupò Harar ed il 25 aprile Dagahbur. La pioggia rallentò l'avanzata delle truppe, che raggiunsero Dire Daua poche ore dopo il passaggio dell'imperatore Selaisse in viaggio verso l'esilio. Graziani, per intercettare il treno dell'imperatore in esilio, chiese più volte di bombardare i binari, ma il permesso gli venne negato da Mussolini stesso.
Il 5 maggio le truppe di Badoglio entrarono in Addis Abeba e la sera dello stesso giorno Mussolini comunicò al popolo italiano la vittoria.
Il 7 maggio l'Abissinia venne annessa all'Italia ed il 9 maggio, da Palazzo Venezia, Mussolini annunciò la fine della guerra e proclamò la nascita dell'Impero, riservando al Re Vittorio Emanuele III la carica di Imperatore d'Etiopia e per entrambi la carica di Primo Maresciallo dell'Impero.
Eritrea, Abissinia e Somalia vennero così riunite sotto un unico governatore, e la nuova colonia venne chiamata Africa Orientale Italiana.
Per un certo periodo, le truppe fedeli a Selaisse tentarono delle azioni di guerriglia, represse nel sangue da Graziani.
Durante questa guerra, come già accennato riguardo ad alcune battaglie, vennero utilizzati i gas asfissianti per combattere le truppe etiopi: Mussolini, nel dicembre 1934, scriveva al generale Badoglio che l'utilizzo dei gas era necessario per la "conquista totale dell'Etiopia".
Già dalle prime battaglie, Badoglio e Graziani utilizzarono i gas soprattutto per risolvere situazioni intricate per l'esercito italiano, ma purtroppo vennero utilizzati anche per bombardare le popolazioni, pascoli, villaggi e fiumi.
Selaisse denunciò l'utilizzo delle armi chimiche da parte degli italiani, alla Società delle Nazioni nel maggio 1936.
Mussolini addirittura prospettò anche l'utilizzo di armi batteriologiche, ma Badoglio ebbe sin da subito delle riserve, adducendo come motivo il fatto che i gas già stavano dando "buoni effetti".
Badoglio e l'apparato militare italiano mantennero il più stretto riserbo sull'utilizzo delle armi chimiche in Etiopia, e il popolo italiano perciò non venne mai a conoscenza del loro utilizzo.
Ma dopo la denuncia di Selaisse ed il bombardamento di ospedali da campo belgi e svedesi, Mussolini fu costretto ad una parziale ammissione, minimizzando le dimensioni dei fatti e giustificandoli come ritorsioni legittime, in quanto anche gli etiopi torturavano i prigionieri italiani.
Lo storico svizzero Mattioli intravede nella brutalità della guerra d'Etiopia uno dei germi della Seconda Guerra Mondiale.
Le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni nell'ottobre 1934, vennero sfruttate dal regime fascista affinchè l'Italia si stringesse attorno a Mussolini. In particolare, la Gran Bretagna venne etichettata come il nemico pubblico numero uno, e ritornò in voga il patriottismo e la propaganda politica spinse verso l'utilizzo dei soli prodotti italiani. Nacque così l'autarchia, secondo la quale tutto doveva essere prodotto e consumato all'interno dello stato. Tutto quello che non poteva essere più prodotto per mancanza delle materie prime venne sostituito: il tè con il carcadè, la lana con il lanital, il carbone con la lignite, la benzina con il carburante nazionale (benzina con l'85% di alcool), mentre il caffè venne sostituito con il caffè d'orzo.
Inoltre, anche la linguaggio subì delle modifiche: tutti i forestierismi vennero banditi, con risultati a volte imbarazzanti (il cognac diventa arzente). Tutte le città con nomi francofoni o tedescofoni vennero rinominate, infine il lei venne bandito, sostituito dal voi!
La nascita dell'impero, alla fine dei conti, non portò nessuna delle ricchezze promesse: né oro, né ferro, né grano! Anzi, l'Impero finì per prosciugare le casse statali per costruire strade, edifici e dighe, e dette a Mussolini l'illusione di avere un esercito potente.
venerdì 15 febbraio 2013
L'avvento del Nazismo in Germania
La storia del Nazismo è praticamente la storia di un uomo, Adolf Hitler. Nato nel 1889 in un paesino dell'Austria, figlio di un impiegato di una dogana, Alois, di 51 anni, al suo terzo matrimonio, e di una donna di 28 anni. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, si arruolò come volontario nell'esercito tedesco ed ottenne il grado di caporale. Dopo essere rimasto accecato da un attacco di iprite durante la battaglia di Paaschendaele, nell'ottobre 1918, fu ricoverato presso l'ospedale di Pasewalk, dove apprese della capitolazione tedesca del 9 novembre. Come affermò egli stesso in seguito, nonostante l'esperienza della guerra lo rese convinto di essere dotato di una sorta di "protezione divina" in virtù di una "missione salvifica da compiere per il bene della nazione", fu proprio durante la degenza a Pasewalk che in Hitler maturò l'idea di buttarsi in politica.
Durante la guerra, Hitler acquisì un notevole patriottismo tedesco, nonostante fosse cittadino austriaco, e rimase sconvolto alla notizia della capitolazione dell'impero germanico: egli dava tutta la colpa agli ebrei, che avrebbero minato dall'interno la resistenza dei soldati al fronte e indotto i politici alla resa e a sottoscrivere il trattato di Versailles.
Nel frattempo, in Germania, alla fine della guerra, scoppiarono delle rivolte, che portarono l'imperatore Guglielmo II ad abdicare, ma il 9 novembre 1918, il socialdemocratico Scheidemann proclamò la repubblica, la cui costituzione entrò in vigore nell'agosto 1919 dando inizio alla Repubblica di Weimar.
Hitler, che dopo la guerra era andato a Monaco di Baviera (dove viveva già prima delle ostilità), mentre era ancora nell'esercito (vi rimase ufficialmente fino al marzo 1920) venne incaricato di spiare gli incontri di un piccolo partito nazionalista, il Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP): il futuro dittatore assistette a più di un incontro, partecipando attivamente alle discussioni, tant'è che Anton Drexler, uno dei fondatori del DAP, rimasto colpo dalla sua oratoria, lo iscrisse al partito.
Hitler divenne ben presto uno dei leader del partito, tanto da cambiarne il nome in Partito Nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP), adottando come simbolo una svastica.
Il partito nazista, in quel periodo, era solo uno dei tanti partiti nazionalisti presenti a Monaco di Baviera: ma grazie alla sua capacità oratoria, Hitler riuscì attrarre nuovi aderenti, tra cui Rudolf Hess, Hermann Goring ed Ernst Rohm, che sarebbe stato per anni il capo incontrastato delle SA, l'organizzazione paramilitare del partito.
Il futuro dittatore, ammiratore di Mussolini e del Partito Fascista, nel novembre 1923 organizzò, sulla falsa riga della Marcia su Roma, un putsch (conosciuto poi come Putsch di Monaco): partendo dalla birreria di Monaco dove il partito nazista organizzava i suoi incontri, Hitler e i suoi seguaci marciarono verso il Ministero della Guerra bavarese per rovesciare il governo separatista di destra della Baviera e marciare poi su Berlino. Il tentativo fallì miseramente ed Hitler, arrestato, venne processato per alto tradimento e, nell'aprile 1924, condannato a cinque anni di carcere da scontare nel prigione di Landsberg am Lech. Fu proprio durante la prigionia che Hitler, aiutato dal fedele Hess, scrisse il Mein Kampf, l'opera in cui il futuro dittatore descrisse le sue idee in fatto di politica, razza e storia, compresi numerosi avvertimenti su quello che sarebbe stato il destino dei suoi nemici, in particolare degli ebrei, nel caso fosse riuscito a salire al potere. Il libro uscì poi in due volumi e non venne preso molto sul serio.
Dopo solo nove mesi di pena, nel novembre 1924 Hitler venne rilasciato, poiché considerato relativamente innocuo. Al suo rilascio, Hitler trovò un partito nazista completamente allo sbando, quasi alla fine della sua breve esistenza: i suoi capi si dettero molto da fare per ricostruirlo. Già nel 1925, Hitler creò, all'interno delle SA, una guardia del corpo personale, le SS (Schutzstaffeln): questo era un corpo d'elite dalle uniformi nere, guidato da Heinrich Himmler.
Hitler riuscì sin da subito ad esercitare un notevole fascino sul popolo tedesco, facendo appello all'orgoglio nazionale, ferito dalla sconfitta in guerra ma soprattutto dalle condizioni del trattato di Versailles, che imponevano alla Germania il pagamento delle riparazioni di guerra: in particolare, Hitler, per ottenere consensi, combinava nei suoi discorsi attacchi antisemiti ad attacchi contro i fallimenti della Repubblica di Weimar.
Imparata la lezione del fallito putsch di Monaco, Hitler fu persuaso dal fatto che l'unico modo per conquistare il potere in Germania era attraverso la via legale: il punto di svolta, in particolare, avvenne "grazie" alla Grande Depressione economica mondiale, che colpì duramente la Germania nel 1930.
La Repubblica di Weimar non era mai stata particolarmente accettata nè dai conservatori, nè dai comunisti. I socialdemocratici e i partit tradizionali di centro e di destra non riuscirono a contenere lo shock della Depressione e, alle elezioni del 14 settembre 1930, il partito nazista uscì dall'oblio ottenendo il 18% dei voti, conquistando ben 107 seggi nel Reichstag, divenendo così la seconda forza politica tedesca.
In particolare, Hitler basò il suo successo sulla conquista della classe media, duramente colpita dalla crisi economica, ma anche sul sostegno di contadini e veterani di guerra, influenzati dai richiami dell'ideologia Volk (popolo) al mito del sangue e della terra. La classe operaia urbana, filocomunista, ignorava completamente i richiami di Hitler.
Le elezioni del 1930 furono un totale disastro per il governo Bruning, tant'è che il maresciallo Hindenburg (l'allora presidente della Repubblica), dopo le elezioni presidenziali del 1932, in cui corse contro lo stesso Hitler, decise di sostituirlo con un nuovo governo reazionario guidato da Franz Von Papen.
Le elezioni del luglio 1932 furono un grande successo per i nazisti, che ottennero 230 seggi e divennero il partito di maggioranza relativa insieme ai comunisti: dato il forte contrasto tra i due partiti, non era possibile creare una maggioranza stabile impegnata alla democrazia, ed in seguito al voto di sfiducia sul governo Von Papen, vennero indette nuove elezioni per il novembre dello stesso anno.
Durante la guerra, Hitler acquisì un notevole patriottismo tedesco, nonostante fosse cittadino austriaco, e rimase sconvolto alla notizia della capitolazione dell'impero germanico: egli dava tutta la colpa agli ebrei, che avrebbero minato dall'interno la resistenza dei soldati al fronte e indotto i politici alla resa e a sottoscrivere il trattato di Versailles.
Nel frattempo, in Germania, alla fine della guerra, scoppiarono delle rivolte, che portarono l'imperatore Guglielmo II ad abdicare, ma il 9 novembre 1918, il socialdemocratico Scheidemann proclamò la repubblica, la cui costituzione entrò in vigore nell'agosto 1919 dando inizio alla Repubblica di Weimar.
Hitler, che dopo la guerra era andato a Monaco di Baviera (dove viveva già prima delle ostilità), mentre era ancora nell'esercito (vi rimase ufficialmente fino al marzo 1920) venne incaricato di spiare gli incontri di un piccolo partito nazionalista, il Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP): il futuro dittatore assistette a più di un incontro, partecipando attivamente alle discussioni, tant'è che Anton Drexler, uno dei fondatori del DAP, rimasto colpo dalla sua oratoria, lo iscrisse al partito.
Hitler divenne ben presto uno dei leader del partito, tanto da cambiarne il nome in Partito Nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP), adottando come simbolo una svastica.
Il partito nazista, in quel periodo, era solo uno dei tanti partiti nazionalisti presenti a Monaco di Baviera: ma grazie alla sua capacità oratoria, Hitler riuscì attrarre nuovi aderenti, tra cui Rudolf Hess, Hermann Goring ed Ernst Rohm, che sarebbe stato per anni il capo incontrastato delle SA, l'organizzazione paramilitare del partito.
Il futuro dittatore, ammiratore di Mussolini e del Partito Fascista, nel novembre 1923 organizzò, sulla falsa riga della Marcia su Roma, un putsch (conosciuto poi come Putsch di Monaco): partendo dalla birreria di Monaco dove il partito nazista organizzava i suoi incontri, Hitler e i suoi seguaci marciarono verso il Ministero della Guerra bavarese per rovesciare il governo separatista di destra della Baviera e marciare poi su Berlino. Il tentativo fallì miseramente ed Hitler, arrestato, venne processato per alto tradimento e, nell'aprile 1924, condannato a cinque anni di carcere da scontare nel prigione di Landsberg am Lech. Fu proprio durante la prigionia che Hitler, aiutato dal fedele Hess, scrisse il Mein Kampf, l'opera in cui il futuro dittatore descrisse le sue idee in fatto di politica, razza e storia, compresi numerosi avvertimenti su quello che sarebbe stato il destino dei suoi nemici, in particolare degli ebrei, nel caso fosse riuscito a salire al potere. Il libro uscì poi in due volumi e non venne preso molto sul serio.
Dopo solo nove mesi di pena, nel novembre 1924 Hitler venne rilasciato, poiché considerato relativamente innocuo. Al suo rilascio, Hitler trovò un partito nazista completamente allo sbando, quasi alla fine della sua breve esistenza: i suoi capi si dettero molto da fare per ricostruirlo. Già nel 1925, Hitler creò, all'interno delle SA, una guardia del corpo personale, le SS (Schutzstaffeln): questo era un corpo d'elite dalle uniformi nere, guidato da Heinrich Himmler.
Hitler riuscì sin da subito ad esercitare un notevole fascino sul popolo tedesco, facendo appello all'orgoglio nazionale, ferito dalla sconfitta in guerra ma soprattutto dalle condizioni del trattato di Versailles, che imponevano alla Germania il pagamento delle riparazioni di guerra: in particolare, Hitler, per ottenere consensi, combinava nei suoi discorsi attacchi antisemiti ad attacchi contro i fallimenti della Repubblica di Weimar.
Imparata la lezione del fallito putsch di Monaco, Hitler fu persuaso dal fatto che l'unico modo per conquistare il potere in Germania era attraverso la via legale: il punto di svolta, in particolare, avvenne "grazie" alla Grande Depressione economica mondiale, che colpì duramente la Germania nel 1930.
La Repubblica di Weimar non era mai stata particolarmente accettata nè dai conservatori, nè dai comunisti. I socialdemocratici e i partit tradizionali di centro e di destra non riuscirono a contenere lo shock della Depressione e, alle elezioni del 14 settembre 1930, il partito nazista uscì dall'oblio ottenendo il 18% dei voti, conquistando ben 107 seggi nel Reichstag, divenendo così la seconda forza politica tedesca.
In particolare, Hitler basò il suo successo sulla conquista della classe media, duramente colpita dalla crisi economica, ma anche sul sostegno di contadini e veterani di guerra, influenzati dai richiami dell'ideologia Volk (popolo) al mito del sangue e della terra. La classe operaia urbana, filocomunista, ignorava completamente i richiami di Hitler.
Le elezioni del 1930 furono un totale disastro per il governo Bruning, tant'è che il maresciallo Hindenburg (l'allora presidente della Repubblica), dopo le elezioni presidenziali del 1932, in cui corse contro lo stesso Hitler, decise di sostituirlo con un nuovo governo reazionario guidato da Franz Von Papen.
Le elezioni del luglio 1932 furono un grande successo per i nazisti, che ottennero 230 seggi e divennero il partito di maggioranza relativa insieme ai comunisti: dato il forte contrasto tra i due partiti, non era possibile creare una maggioranza stabile impegnata alla democrazia, ed in seguito al voto di sfiducia sul governo Von Papen, vennero indette nuove elezioni per il novembre dello stesso anno.
Von Papen e il Partito di Centro aprirono entrambi dei negoziati per assicurarsi la partecipazione nazista al governo, ma Hitler pose delle condizioni dure, chiedendo il cancellierato e il consenso del Presidente che gli permettesse di utilizzare i poteri d'emergenza dell'articolo 48 della costituzione. Il tentativo fallito di entrare nel governo, unito agli sforzi nazisti di ottenere il supporto della classe operaia, alienarono alcuni dei precedenti sostenitori e nelle elezioni del novembre 1932 i nazisti persero dei voti, pur rimanendo il principale partito del Reichstag.
Poiché von Papen aveva chiaramente fallito nei suoi tentativi di garantirsi una maggioranza attraverso la negoziazione che avrebbe portato i nazisti al governo, Hindenburg lo dimise e chiamò al suo posto il generale Kurt Von Schleicher, che era stato per lungo tempo una forza dietro le quinte e successivamente Ministro della Difesa, il quale promise di poter garantire un governo di maggioranza attraverso la negoziazione con i sindacalisti Socialdemocratici e con la fazione nazista dissidente, guidata da Gregor Strasser
Quando Schleicher s'imbarcò in questa difficile missione, von Papen e Alfred Hugenberg, Segretario del Partito Popolare Tedesco Nazionale (DNVP), che prima dell'ascesa nazista era il principale partito di destra, cospirarono per persuadere Hindenburg a nominare Hitler come cancelliere in coalizione con il DNVP, promettendo che sarebbero stati in grado di controllarlo. Quando Schleicher fu costretto ad ammettere il suo fallimento, e chiese ad Hindenburg un altro scioglimento del Reichstag, Hindenburg lo silurò e mise in atto il piano di von Papen, nominando Hitler Cancelliere con von Papen come Vicecancelliere e Hugenberg come Ministro dell'Economia, in un gabinetto che comprendeva solo tre nazisti; Hitler, Göring, e Wilhelm Frick. Il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler prestò giuramento come Cancelliere nella camera del Reichstag, sotto gli sguardi e gli applausi di migliaia di sostenitori del nazismo.
Già il 28 febbraio 1933, Hitler emise il cosiddetto decreto dell'incendio del Reichstag, in risposta diretta all'incendio del Parlamento tedesco avvenuto il giorno prima, volto a schiacciare i tentativo di colpo di stato: il decreto, firmato dal Presidente Hindenburg, sopprimeva gran parte dei diritto civili in nome della sicurezza nazionale. I leader comunisti, con altri oppositori del regime, andarono subito in prigione. Al tempo stesso, le SA iniziarono una ondata di violenza contro ebrei ed oppositori politici.
I nazisti non avevano però i pieni poteri, non avendo la maggioranza assoluta: anche nelle elezioni del marzo 1933, che si svolsero dopo che terrore e violenza si erano diffuse per lo stato, i nazisti ricevettero solo il 44% dei voti. Il partito ottenne il controllo della maggioranza dei seggi al Reichstag attraverso una formale coalizione con il DNVP. Infine, i voti addizionali necessari a far passare il decreto dei pieni poteri (Ermächtigungsgesetz), che investì Hitler di un'autorità dittatoriale, furono assicurati con l'espulsione dei deputati comunisti dal Reichstag e con l'intimidazione dei ministri del Partito di Centro. Con una serie di decreti che arrivarono subito dopo, vennero soppressi gli altri partiti e bandite tutte le forme di opposizione. In soli pochi mesi Hitler aveva raggiunto un controllo autoritario senza aver mai violato o sospeso la costituzione del Reich, minando tuttavia il sistema democratico. Sfruttando, infatti, il quadro giuridico fornito dalla Costituzione, Adolf Hitler fece approvare dal Parlamento la legge che gli concesse i pieni poteri. È il 24 marzo del 1933, e tutti i partiti, anche quelli di ispirazione democratica che avevano governato in precedenza, votarono le norme che trasformano la Germania in una dittatura. Dopo l'espulsione dal Reichtstag dei comunisti solo la SPD votò contro la Ermächtigungsgesetz. In base a questo decreto, Hitler sciolse d'imperio tutti i partiti politici tedeschi e promosse soltanto il partito nazista ad unico partito ammesso in Germania (14 luglio 1933).
lunedì 11 febbraio 2013
I Patti Lateranensi
Mussolini sapeva che per governare in Italia non poteva andare contro la Chiesa e i cattolici: pur dichiarandosi ateo, alla soglia potere il Duce dichiarò che "il fascismo non pratica l'anticlericalismo".
Con l'ormai famosa "Questione Romana" (vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Questione_romana) ancora da risolvere, Mussolini decise di conquistarsi in un colpo solo il favore del mondo ecclesiastico (che pur non approvandolo in toto, lo preferiva al comunismo) e dei cattolici. Il Duce avviò segretamente delle trattative per trovare un accordo con la Chiesa, negoziando direttamente con il segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri.
I Patti Lateranensi, che presero il nome dal palazzo di San Giovanni in Laterano in cui avvenne la firma degli accordi, vennero sottoscritti l'11 febbraio 1929.
I Patti erano composti da due documenti: il Trattato, che fondava lo Stato della Città del Vaticano, riconoscendo l'indipendenza e la sovranità della Santa Sede; il Concordato, che definiva le relazioni civili tra Stato e Chiesa.
Il Concordato, che venne poi modificato nel 1984, prevedeva che i nuovi vescovi prestassero giuramento al Governo Italiano: l'unico che non doveva prestare questo giuramento era il cardinale vicario, che faceva le veci del Papa in qualità di vescovo di Roma. Questa eccezione era prevista in segno di rispetto dell'indipendenza del Papa.
Il Governo Italiano, inoltre, acconsentì a rendere le sue leggi sul matrimonio e sul divorzio conformi a quelle della Chiesa cattolica di Roma e di rendere il clero esente dal servizio militare. Nei Patti venne poi riconosciuta come religione di Stato quella cattolica e venne istituito l'insegnamento nelle scuole della religione cattolica.
A maggio i Patti vennero poi ratificati sia dal Senato che dal Gran Consiglio del Fascismo. Il 7 giugno 1929 avvenne poi lo scambio della ratifiche in una saletta dei Palazzi apostolici, con Mussolini che venne ricevuto con tutti gli onori.
Con l'ormai famosa "Questione Romana" (vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Questione_romana) ancora da risolvere, Mussolini decise di conquistarsi in un colpo solo il favore del mondo ecclesiastico (che pur non approvandolo in toto, lo preferiva al comunismo) e dei cattolici. Il Duce avviò segretamente delle trattative per trovare un accordo con la Chiesa, negoziando direttamente con il segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri.
I Patti Lateranensi, che presero il nome dal palazzo di San Giovanni in Laterano in cui avvenne la firma degli accordi, vennero sottoscritti l'11 febbraio 1929.
I Patti erano composti da due documenti: il Trattato, che fondava lo Stato della Città del Vaticano, riconoscendo l'indipendenza e la sovranità della Santa Sede; il Concordato, che definiva le relazioni civili tra Stato e Chiesa.
Il Concordato, che venne poi modificato nel 1984, prevedeva che i nuovi vescovi prestassero giuramento al Governo Italiano: l'unico che non doveva prestare questo giuramento era il cardinale vicario, che faceva le veci del Papa in qualità di vescovo di Roma. Questa eccezione era prevista in segno di rispetto dell'indipendenza del Papa.
Il Governo Italiano, inoltre, acconsentì a rendere le sue leggi sul matrimonio e sul divorzio conformi a quelle della Chiesa cattolica di Roma e di rendere il clero esente dal servizio militare. Nei Patti venne poi riconosciuta come religione di Stato quella cattolica e venne istituito l'insegnamento nelle scuole della religione cattolica.
A maggio i Patti vennero poi ratificati sia dal Senato che dal Gran Consiglio del Fascismo. Il 7 giugno 1929 avvenne poi lo scambio della ratifiche in una saletta dei Palazzi apostolici, con Mussolini che venne ricevuto con tutti gli onori.
La crisi economica del 1929
La crisi economica del 1929 colpì il mondo intero con effetti devastanti e con ripercussioni che furono sentite per tutti gli anni trenta.
Iniziata con il crollo di Wall Street del 24 ottobre 1929, ebbe come prima conseguenza il crollo della borsa valori del 29 ottobre. La crisi colpì in egual misura i paesi industrializzati e quelli esportatori di materie prime, provocò il crollo del commercio internazionale, ma soprattutto provocò una diminuzione drastica dei redditi dei lavoratori, dei prezzi e dei profitti.
Le città più grandi furono quelle più colpite, ma gli effetti si sono fatti sentire anche nei paesi rurali, a causa di un crollo dei prezzi tra il 40% ed il 60%.
La causa principale della crisi del 1929 è stata la pretesa ottocentesca e deterministica dei liberisti dell’epoca che il mercato avesse una capacità quasi naturale di autoregolarsi, senza alcun intervento esterno, meno che mai dello Stato.Dalla crisi nascono sia le politiche economiche di stampo keynesiano del Brain Trust di Roosevelt, sia il mito della capacità di sviluppo equilibrato delle economie pianificate di tipo sovietico che ha avuto una grande influenza su larghe fasce di intellettuali e dell’opinione pubblica europea e americana.La crisi del 1929 è stata così istantanea che provoca un panico incredibile. Alcuni storici parlano, infatti, non a torto di crisi economica e psicologica, determinata sicuramente anche dal eccessivo ottimismo e autoreferenzialità della società capitalistica statunitense.Il 24 ottobre del 1929 l’ottimismo si rivela assolutamente infondato: furono vendute al ribasso ben 12.894.650 azioni. Migliaia di brokers vengono presi dal panico, si registrarono numerosi suicidi tra gli speculatori e i mediatori di borsa. I piccoli e medi risparmiatori sono stati naturalmente i più colpiti e devono ricominciare da capo la loro lotta per la sopravvivenza, non contando più sulle promesse di arricchimento facile. In meno di un mese anche le banche chiudono i cordoni del credito, accentuando ancor di più la crisi. Le migliaia di migliaia di società, spesso non solide, cresciute nel periodo della speculazione falliscono, le loro merci invendute si accumulano nei magazzini, i loro dipendenti vengono licenziati. L’aspetto più preoccupante della crisi è stata, infatti, la crescita geometrica della disoccupazione nei primi tre anni di crisi: dai 2 milioni di disoccupati del 1929, si passò a 4 milioni nel 1930, a 8 milioni nel 1931.
Una prima causa di fragilità del sistema economico internazionale è insita nell'eredità dei debiti di guerra. Alla fine del conflitto infatti Gran Bretagna, Francia e Italia si erano ritrovate debitrici con gli Stati Uniti per somme ingenti, che costringevano tutte e tre a una politica di esportazioni molto aggressiva per procurarsi la valuta necessaria a pagare i debiti. Si era quindi fatta strada l'idea di adottare lo stesso espediente dell'indomani della guerra franco-prussiana, quando le riparazioni di guerra imposte alla Francia avevano permesso non solo di coprire il costo della guerra ma anche di consentire la ripresa economica. Perciò fu deciso di addebitare i costi bellici alla Germania.
L'industria tedesca, pur avendo un grande potenziale, era uscita dalla guerra stremata. Da allora gli stessi paesi vincitori, soprattutto gli Stati Uniti, si erano resi conto della necessità di sostenere l'economia tedesca con ingenti finanziamenti. Questi finanziamenti avevano creato un curioso triangolo in cui la Germania usava gran parte di queste risorse per pagare i debiti a Gran Bretagna e Francia, e queste a loro volta usavano i capitali per pagare i propri debiti. Dunque questo sistema sarebbe sopravvissuto fin quando gli U.S.A. fossero stati in grado di esportare capitali in Germania.
Un secondo elemento di fragilità del sistema economico internazionale era costituito dall'assenza di un Paese guida credibile, con la volontà e un'influenza tale da correggere eventuali crisi economiche globali. Dopo la Grande guerra il primato sarebbe dovuto passare in mano agli Stati Uniti, i quali, pur avendo un apparato industriale di gran lunga superiore a quello degli altri paesi, tuttavia non si impadronirono dello status internazionale che gli sarebbe spettato a causa di una politica isolazionista (status che rimase in mano alla Gran Bretagna). L'assenza di un'appropriata guida economico-finanziaria si rifletteva in modo drammatico sul sistema internazionale: nella conferenza di Genova del 1922 venne definito un sistema misto, noto come gold exchange standard, che da una parte garantiva respiro all'economia britannica, dall'altro affidava alla sua finanza un ruolo di regolatore dell'economia internazionale che non era in grado di assumere.
La crisi si propagò rapidamente a tutti i paesi che avevano stretti rapporti finanziari con gli Stati Uniti, a partire da quelli europei che si erano affidati all'aiuto economico degli americani dopo la Prima guerra mondiale, ovvero Gran Bretagna, Austria e Germania, dove il ritiro dei prestiti americani fece saltare il complesso e delicato sistema delle riparazioni di guerra, trascinando nella crisi anche Francia e Italia. In tutti questi paesi si assistette a un drastico calo della produzione seguito da diminuzione dei prezzi, crolli in borsa, fallimenti e chiusura di industrie e banche, aumento di disoccupati (12 milioni negli USA, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna). In Italia, allo scoppio della grande crisi, Mussolini ordinò di ignorare totalmente l'evento, tanto era sicuro che gli effetti nel nostro Paese non si sarebbero fatti sentire: invece, l'economia nazionale entrò in una profonda crisi che portò alla nascita del IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e che durò fino alla fine degli anni trenta.Va notato che la crisi non colpì l'economia dell'URSS, la quale in quegli anni aveva inaugurato il suo primo piano quinquennale con l'obiettivo di creare una base industriale moderna. Restarono inoltre immuni dalla crisi anche il Giappone - che affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure inflazionistiche - e i Paesi scandinavi che, in quanto esportatori di particolari materie prime, non risentirono della riduzione della domanda dei loro prodotti.
Nel 1931 la Gran Bretagna abbandonò il gold standard, imitata subito dai paesi scandinavi. Nel 1934 sterlina e dollaro vennero fortemente svalutati.
giovedì 7 febbraio 2013
L'omicidio Matteotti: il fascismo diventa dittatura
Nel primo anno e mezzo di governo, Mussolini intraprende una serie di iniziative ("normalizzazione" delle squadre fasciste, provvedimenti a favore dei mutilati e degli invalidi di guerra, la riforma della scuola ed altri), ma in vista delle elezioni del 6 aprile 1924, il primo ministro fa approvare la nuova legge elettorale, la cosiddetta Legge Acerbo, che prevede l'adozione di un sistema proporzionale a premio di maggioranza: nel caso in cui la lista più votata avesse superato il 25% dei voti validi, avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi alla Camera dei Deputati, eleggendo in blocco tutti i suoi candidati, in quanto le liste potevano presentare non più di 356 candidati (su 535 seggi nella Camera disponibili).
Il 6 aprile 1924, come prevedibile, la lista del Partito Nazionale Fascista ottiene il 60,09% dei voti: i fascisti riescono anche a limare il numero dei seggi garantiti alle minoranze, partecipando alla loro spartizione attraverso delle liste civetta ottenendo altri 19 seggi, mentre le opposizioni di centro e di sinistra ottengono solo 161 seggi (35,1% dei voti).
Il 30 maggio 1924, un deputato socialista, Giacomo Matteotti, prende la parola durante la riunione della Camera dei Deputati e contesta apertamente i risultati delle elezioni del 6 aprile, denunciando violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni, pronunciando un discorso che sarebbe diventato famoso: "[...] Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. [...] L'elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. [...] Per vostra stessa conferma (dei parlamentari fascisti) dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà... [...] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse."
Matteotti propone di far invalidare almeno l'elezione di una parte di quei deputati che, secondo lui, sarebbero stati illegalmente eletti, ma ovviamente la sua proposta non è accolta con ben 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Secondo lo storico Renzo De Felice, l'intenzione di Matteotti non era tanto quella di far invalidare il voto (anche perché sapeva, realisticamente, che ciò era impossibile), ma sperava di dare il via ad una netta opposizione al fascismo.
Ma il 10 giugno 1924, Matteotti, uscendo di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio, presso gli Archi di Porta del Popolo (secondo la testimonianza di due ragazzini), viene rapito da cinque membri della polizia politica (Dumini, Volpi, Viola, Malacria e Poveromo), che lo caricarono su un auto (sembra una Lancia Lambda).
Nel veicolo avviene una rissa furibonda, e Matteotti riesce a far cadere dal finestrino il suo tesserino da parlamentare (che verrà poi ritrovato da due contadini presso il Ponte del Risorgimento). Non riuscendo a tenerlo fermo, Viola colpisce Matteotti sotto l'ascella e al torace con un coltello, uccidendolo dopo un'agonia di diverse ore. I cinque scaricano poi il corpo dello sventurato deputato presso la Macchia della Quartarella, a 25 km di Roma, e tornati nella capitale informano immediatamente dell'accaduto De Bono e Filippelli (giornalista che ha fornito l'auto utilizzata per il delitto) e si allontanano cercando di nascondersi.
L'11 giugno, la notizia della scomparsa di Matteotti si trova su tutti i giornali, e il giorno dopo Mussolini deve rispondere ad un'interrogazione parlamentare posta dal deputato Enrico Gonzales sull'accaduto.
Due giorno dopo il rapimento, viene ritrovata l'auto usata per il rapimento e grazie ad una testimonianza, viene identificata come l'auto del giornalista Filippelli: da questo, vengono avviate le prime indagini da parte del magistrato Del Giudice che, insieme al giudice Tancredi, individuano in Dumini come l'assassino. In breve tempo, tutti i rapitori vengono identificati, ma Mussolini interviene nella vicenda e leva l'incarico a Del Giudice , fermando al tempo stesso le indagini (quest'ultimo viene poi allontanato da Roma e costretto al pensionamento forzato!).
La vicenda Matteotti crea uno scossone all'interno del PNF: Mussolini impone le dimissioni a Cesare Rossi (da capo della polizia segreta) e ad Aldo Finzi (da incarichi di governo); il Duce stesso si dimette da ministro dell'Interno (affidando l'incarico a Luigi Federzoni) e costringe anche Emilio De Bono alle dimissioni da capo delle polizia.
Il 26 giugno, i parlamentari dell'opposizione si riuniscono in una sala di Montecitorio (oggi nota come sala dell'Aventino), decidendo di abbandonare i lavori parlamentari fino a quando il governo non avrà fatto chiarezza sulla vicenda Matteotti. Il giorno dopo, mentre alcuni deputati socialisti vanno in pellegrinaggio nel luogo dell'omicidio del loro collega, Filippo Turati commemora Matteotti alla Camera.
L'8 luglio, approfittando dell'assenza dell'opposizione, il governo vara una serie di regolamenti restrittivi relativi alla stampa.
Il corpo di Matteotti viene ritrovato, casualmente, il 16 agosto, e Mussolini ordina a Federzoni di preparare i funerali del deputato a Fratta Polesine, città natale di Matteotti.
Per l'omicidio Matteotti, verranno poi intentati una serie di processi, che porteranno alla condanna, nel 1926, per omicidio preterintenzionale e ad una pena di 5 anni per Dumini, Volpi e Poveromo, mentre per Malacria, Viola e Panzeri ci sarà l'assoluzione.
Il 3 gennaio 1925, Mussolini fa il famoso discorso alla Camera in cui dichiara la propria responsabilità per l'omicidio di Matteotti, ma al tempo stesso dà inizio alla dittatura fascista.
Nel biennio 1925-1926, il governo fascista varerà una serie di provvedimenti liberticidi: vengono sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, viene soppressa ogni libertà di stampa, viene ripristinata la pena di morte e viene creato un Tribunale speciale con ampi poteri.
Con una legge del 24 dicembre 1925, Mussolini cessa di essere Presidente del Consiglio e diventa primo ministro segretario di stato, responsabile solo davanti al re e non più al Parlamento; a loro volta i vari ministri sono nominati dal re su proposta del primo ministro e responsabili sia di fronte al re sia di fronte al primo ministro. Inoltre la legge stabilisce che nessun progetto potrà essere discusso dal Parlamento senza l’approvazione del primo ministro.
Inizia così la dittatura fascista.
Il 6 aprile 1924, come prevedibile, la lista del Partito Nazionale Fascista ottiene il 60,09% dei voti: i fascisti riescono anche a limare il numero dei seggi garantiti alle minoranze, partecipando alla loro spartizione attraverso delle liste civetta ottenendo altri 19 seggi, mentre le opposizioni di centro e di sinistra ottengono solo 161 seggi (35,1% dei voti).
Il 30 maggio 1924, un deputato socialista, Giacomo Matteotti, prende la parola durante la riunione della Camera dei Deputati e contesta apertamente i risultati delle elezioni del 6 aprile, denunciando violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni, pronunciando un discorso che sarebbe diventato famoso: "[...] Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. [...] L'elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. [...] Per vostra stessa conferma (dei parlamentari fascisti) dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà... [...] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse."
Matteotti propone di far invalidare almeno l'elezione di una parte di quei deputati che, secondo lui, sarebbero stati illegalmente eletti, ma ovviamente la sua proposta non è accolta con ben 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Secondo lo storico Renzo De Felice, l'intenzione di Matteotti non era tanto quella di far invalidare il voto (anche perché sapeva, realisticamente, che ciò era impossibile), ma sperava di dare il via ad una netta opposizione al fascismo.
Ma il 10 giugno 1924, Matteotti, uscendo di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio, presso gli Archi di Porta del Popolo (secondo la testimonianza di due ragazzini), viene rapito da cinque membri della polizia politica (Dumini, Volpi, Viola, Malacria e Poveromo), che lo caricarono su un auto (sembra una Lancia Lambda).
Nel veicolo avviene una rissa furibonda, e Matteotti riesce a far cadere dal finestrino il suo tesserino da parlamentare (che verrà poi ritrovato da due contadini presso il Ponte del Risorgimento). Non riuscendo a tenerlo fermo, Viola colpisce Matteotti sotto l'ascella e al torace con un coltello, uccidendolo dopo un'agonia di diverse ore. I cinque scaricano poi il corpo dello sventurato deputato presso la Macchia della Quartarella, a 25 km di Roma, e tornati nella capitale informano immediatamente dell'accaduto De Bono e Filippelli (giornalista che ha fornito l'auto utilizzata per il delitto) e si allontanano cercando di nascondersi.
L'11 giugno, la notizia della scomparsa di Matteotti si trova su tutti i giornali, e il giorno dopo Mussolini deve rispondere ad un'interrogazione parlamentare posta dal deputato Enrico Gonzales sull'accaduto.
Due giorno dopo il rapimento, viene ritrovata l'auto usata per il rapimento e grazie ad una testimonianza, viene identificata come l'auto del giornalista Filippelli: da questo, vengono avviate le prime indagini da parte del magistrato Del Giudice che, insieme al giudice Tancredi, individuano in Dumini come l'assassino. In breve tempo, tutti i rapitori vengono identificati, ma Mussolini interviene nella vicenda e leva l'incarico a Del Giudice , fermando al tempo stesso le indagini (quest'ultimo viene poi allontanato da Roma e costretto al pensionamento forzato!).
La vicenda Matteotti crea uno scossone all'interno del PNF: Mussolini impone le dimissioni a Cesare Rossi (da capo della polizia segreta) e ad Aldo Finzi (da incarichi di governo); il Duce stesso si dimette da ministro dell'Interno (affidando l'incarico a Luigi Federzoni) e costringe anche Emilio De Bono alle dimissioni da capo delle polizia.
Il 26 giugno, i parlamentari dell'opposizione si riuniscono in una sala di Montecitorio (oggi nota come sala dell'Aventino), decidendo di abbandonare i lavori parlamentari fino a quando il governo non avrà fatto chiarezza sulla vicenda Matteotti. Il giorno dopo, mentre alcuni deputati socialisti vanno in pellegrinaggio nel luogo dell'omicidio del loro collega, Filippo Turati commemora Matteotti alla Camera.
L'8 luglio, approfittando dell'assenza dell'opposizione, il governo vara una serie di regolamenti restrittivi relativi alla stampa.
Il corpo di Matteotti viene ritrovato, casualmente, il 16 agosto, e Mussolini ordina a Federzoni di preparare i funerali del deputato a Fratta Polesine, città natale di Matteotti.
Per l'omicidio Matteotti, verranno poi intentati una serie di processi, che porteranno alla condanna, nel 1926, per omicidio preterintenzionale e ad una pena di 5 anni per Dumini, Volpi e Poveromo, mentre per Malacria, Viola e Panzeri ci sarà l'assoluzione.
Il 3 gennaio 1925, Mussolini fa il famoso discorso alla Camera in cui dichiara la propria responsabilità per l'omicidio di Matteotti, ma al tempo stesso dà inizio alla dittatura fascista.
Nel biennio 1925-1926, il governo fascista varerà una serie di provvedimenti liberticidi: vengono sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non fasciste, viene soppressa ogni libertà di stampa, viene ripristinata la pena di morte e viene creato un Tribunale speciale con ampi poteri.
Con una legge del 24 dicembre 1925, Mussolini cessa di essere Presidente del Consiglio e diventa primo ministro segretario di stato, responsabile solo davanti al re e non più al Parlamento; a loro volta i vari ministri sono nominati dal re su proposta del primo ministro e responsabili sia di fronte al re sia di fronte al primo ministro. Inoltre la legge stabilisce che nessun progetto potrà essere discusso dal Parlamento senza l’approvazione del primo ministro.
Inizia così la dittatura fascista.
lunedì 4 febbraio 2013
La marcia su Roma
Nel novembre 1921, come abbiamo visto, i Fasci italiani di Combattimento cambiano nome in Partito Nazionale Fascista (PNF), ma al suo interno ci sono contrasti tra le spinte rivoluzionarie e le istanze di crescita costituzionale. Mussolini opta per la "via costituzionale", cercando al tempo stesso di frenare le squadre d'azione e conquistando il consenso del popolo italiano, coinvolgendo allo scopo anche il poeta D'Annunzio.
Intanto, nell'estate del 1922, c'è quello che si può definire un prodromo della Marcia su Roma: il 2 agosto, i fascisti occupano militarmente Ancona, allo scopo di saggiare l'eventuale reazione del Re Vittorio Emanuele III e capire quale sarebbe stata la posizione dell'esercito.
Ma arriviamo al 24 ottobre 1922: a Napoli si tiene una grande adunata di camicie nere, in cui Mussolini proclama impunemente: "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma!". Facta, l'allora presidente del consiglio, risponde in modo del tutto privo di senso, pronunciando la frase che passerà alla storia: "Nutro fiducia".
A Napoli viene organizzata la Marcia su Roma: Mussolini, prudentemente, non avrebbe partecipato direttamente alla Marcia, ma avrebbe seguito gli sviluppi da Milano; a condurre la Marcia, sarebbe stato un quadrumvirato: Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi, mentre Dino Grandi è nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato: questi uomini avrebbe assunto poi pieni poteri a Perugia nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre.
Truppe fasciste, nei programmi, avrebbero nel frattempo occupato uffici pubblici, stazioni, centrali telegrafiche e telefoniche, che sarebbero poi confluite a Foligno, Tivoli, Santa Marinella e Monterotondo. Si raccolsero, per l'evento storico, ben 30.000 fascisti vestiti in camice nere.
La vigilia della Marcia, il 27 ottobre, i quadrumviri emanano un minaccioso proclama, in cui dichiarano, senza mezzi termini, che "l'Esercito delle Camicie Nere riafferma la vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio. [...] La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore." E' l'annuncio della ribellione.
Farinacci, uno dei ras più focosi, insofferente alla regole ma fedelissimo a Mussolini, inizia la Marcia su Roma con un giorno d'anticipo: a Cremona, la città di cui Farinacci è originario, fa occupare da 150 camicie nere la prefettura, mentre altre squadre occupano le poste, la stazione ferroviaria, i telefoni. Vi sono anche degli scontri con le guardie regie e i carabinieri in cui moriranno tre persone.
Il prefetto di Cremona rimette i poteri all'autorità militare. I quadrumviri, nel frattempo, ordinano a Farinacci di sospendere la sua azione, ma lui chiama Mussolini e lo convince a continuare.
Sempre quel 27 ottobre, i quadrumviri sono a Perugia dove, con le squadre loro assegnate, occupano l'ospedale militare di Santa Giuliana, la questura e le porte d'accesso alla città, e ripetono quello che ha fatto Farinacci a Cremona: occupano, cioè, la prefettura, le poste, i telegrafi e la stazione ferroviaria. Tutto ciò, senza l'intervento delle autorità, che anzi se ne lavano le mani. Le stesse azioni avvengono anche a Pisa e Firenze.
Facta, alle prime notizie, telegrafa al Re invitandolo a ritornare a Roma da San Rossore, cosa che il sovrano fa in serata. Il presidente del consiglio chiede al Re di applicare lo stato di assedio, ma il sovrano non accetta la proposta per "pressione di moschetti fascisti!".
Nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre, Facta viene informato che colonne di camicie nere sono partite verso Roma, mentre il Re chiedeva all'esercito se gli sarebbe stato fedele in caso di stato d'assedio. Diaz, il Duca della Vittoria, risponde per tutti: "l'esercito avrebbe certamente fatto il suo dovere, ma sarebbe stato bene non metterlo alla prova".
La mattina del 28 ottobre, il ministro dell'Interno Taddei prepara un proclama di stato d'assedio, che Facta porta immediatamente al Re per la ratifica, ma con grande sorpresa del presidente del consiglio il sovrano rifiuta di sottoscriverlo, inducendo come motivo quello di non volere una guerra civile. Facta decide così di formalizzare le sue dimissioni al Re.
Vittorio Emanuele III decide così, tramite il generale Cittadini, di inviare un telegramma a Mussolini, che si trova sempre a Milano, per conferire con lui.
Il 30 ottobre, Mussolini giunge a Roma e parla per un'ora con il sovrano promettendogli di formare entro sera un nuovo governo, cosa che avviene esattamente alle 18.
Fuori Roma, intanto, sono accampate decine di migliaia di camicie nere in attesa di entrare nella capitale, cosa che avvenne il 31 ottobre davanti al Re Vittorio Emanuele III in persona per più di 6 ore. In seguito, Mussolini ordinerà la smobilitazione generale.
Inizia, così, per il nostro Paese, il governo Mussolini, lungi dal diventare dittatura...
Intanto, nell'estate del 1922, c'è quello che si può definire un prodromo della Marcia su Roma: il 2 agosto, i fascisti occupano militarmente Ancona, allo scopo di saggiare l'eventuale reazione del Re Vittorio Emanuele III e capire quale sarebbe stata la posizione dell'esercito.
Ma arriviamo al 24 ottobre 1922: a Napoli si tiene una grande adunata di camicie nere, in cui Mussolini proclama impunemente: "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma!". Facta, l'allora presidente del consiglio, risponde in modo del tutto privo di senso, pronunciando la frase che passerà alla storia: "Nutro fiducia".
A Napoli viene organizzata la Marcia su Roma: Mussolini, prudentemente, non avrebbe partecipato direttamente alla Marcia, ma avrebbe seguito gli sviluppi da Milano; a condurre la Marcia, sarebbe stato un quadrumvirato: Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi, mentre Dino Grandi è nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato: questi uomini avrebbe assunto poi pieni poteri a Perugia nella notte tra il 26 ed il 27 ottobre.
Truppe fasciste, nei programmi, avrebbero nel frattempo occupato uffici pubblici, stazioni, centrali telegrafiche e telefoniche, che sarebbero poi confluite a Foligno, Tivoli, Santa Marinella e Monterotondo. Si raccolsero, per l'evento storico, ben 30.000 fascisti vestiti in camice nere.
La vigilia della Marcia, il 27 ottobre, i quadrumviri emanano un minaccioso proclama, in cui dichiarano, senza mezzi termini, che "l'Esercito delle Camicie Nere riafferma la vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio. [...] La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore." E' l'annuncio della ribellione.
Farinacci, uno dei ras più focosi, insofferente alla regole ma fedelissimo a Mussolini, inizia la Marcia su Roma con un giorno d'anticipo: a Cremona, la città di cui Farinacci è originario, fa occupare da 150 camicie nere la prefettura, mentre altre squadre occupano le poste, la stazione ferroviaria, i telefoni. Vi sono anche degli scontri con le guardie regie e i carabinieri in cui moriranno tre persone.
Il prefetto di Cremona rimette i poteri all'autorità militare. I quadrumviri, nel frattempo, ordinano a Farinacci di sospendere la sua azione, ma lui chiama Mussolini e lo convince a continuare.
Sempre quel 27 ottobre, i quadrumviri sono a Perugia dove, con le squadre loro assegnate, occupano l'ospedale militare di Santa Giuliana, la questura e le porte d'accesso alla città, e ripetono quello che ha fatto Farinacci a Cremona: occupano, cioè, la prefettura, le poste, i telegrafi e la stazione ferroviaria. Tutto ciò, senza l'intervento delle autorità, che anzi se ne lavano le mani. Le stesse azioni avvengono anche a Pisa e Firenze.
Facta, alle prime notizie, telegrafa al Re invitandolo a ritornare a Roma da San Rossore, cosa che il sovrano fa in serata. Il presidente del consiglio chiede al Re di applicare lo stato di assedio, ma il sovrano non accetta la proposta per "pressione di moschetti fascisti!".
Nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre, Facta viene informato che colonne di camicie nere sono partite verso Roma, mentre il Re chiedeva all'esercito se gli sarebbe stato fedele in caso di stato d'assedio. Diaz, il Duca della Vittoria, risponde per tutti: "l'esercito avrebbe certamente fatto il suo dovere, ma sarebbe stato bene non metterlo alla prova".
La mattina del 28 ottobre, il ministro dell'Interno Taddei prepara un proclama di stato d'assedio, che Facta porta immediatamente al Re per la ratifica, ma con grande sorpresa del presidente del consiglio il sovrano rifiuta di sottoscriverlo, inducendo come motivo quello di non volere una guerra civile. Facta decide così di formalizzare le sue dimissioni al Re.
Vittorio Emanuele III decide così, tramite il generale Cittadini, di inviare un telegramma a Mussolini, che si trova sempre a Milano, per conferire con lui.
Il 30 ottobre, Mussolini giunge a Roma e parla per un'ora con il sovrano promettendogli di formare entro sera un nuovo governo, cosa che avviene esattamente alle 18.
Fuori Roma, intanto, sono accampate decine di migliaia di camicie nere in attesa di entrare nella capitale, cosa che avvenne il 31 ottobre davanti al Re Vittorio Emanuele III in persona per più di 6 ore. In seguito, Mussolini ordinerà la smobilitazione generale.
Inizia, così, per il nostro Paese, il governo Mussolini, lungi dal diventare dittatura...
Iscriviti a:
Post (Atom)